9 maggio 1978. Disse Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno e allievo prediletto di Aldo Moro: “Appresi la notizia dalla Polizia, che intercettò la telefonata di Moretti al professor Tritto”, assistente e amico dello Statista.
Chi quel giorno di quarantasette anni fa capiva, ricorda ancora dove era e che faceva quando in tv dettero la notizia del ritrovamento del cadavere in via Caetani a Roma. A metà strada fra le sedi della Democrazia Cristiana, allora in piazza del Gesù e del Partito Comunista, in via delle Botteghe oscure.
Due luoghi, nei quali chi ci passa oggi probabilmente non ricorda più. Altre storie, altre repubbliche, la seconda, la terza….e il 9 maggio 1978 l’inizio della fine della prima. Il terrorismo fu battuto ma i due partiti di massa contro i quali le Brigate Rosse combattevano non ci sono più.
Rimane la memoria e con essa, purtroppo, anche un po’ di retorica intorno alla figura del leader democristiano tutt’altro che entusiasta di morire per il suo partito.
Commissioni d’inchiesta parlamentare, aule di tribunale, libri e dibattiti. La verità?
Quella ufficiale dello Stato intransigente e dei sequestratori che, forse, si trovarono costretti da imprevisti ad uccidere l’ostaggio che – avessero voluto – avrebbero potuto eliminare il 16 marzo in via Fani, quando lo rapirono. Solo che uno degli innumerevoli colpi sparati fosse andato a segno, come quelli che trucidarono tutti gli uomini della scorta.
Soltanto lui, Moro, che era accanto a loro, non fu sfiorato dalla carneficina. Ancora ci si interroga su come fu possibile.
La lettura dello Stato e del partito armato contro di esso sembra voler pacificare i protagonisti all’insegna, da un lato, del riconoscimento, seppur condannandolo, degli “ideali” dei giovani rivoluzionari. Dall’altro, della fermezza contro di loro, a costo della vita dell’ostaggio.
Fine? No, perché le dietrologie sono tante e intricate, trame nazionali ed internazionali.
Accordo indicibile tra americani e russi a difesa della spartizione del mondo che Stalin e Roosevelt avevano pattuito a Yalta e che il compromesso storico patrocinato da Moro, cioè l’accordo tra comunisti e democristiani, avrebbe minato?
Kissinger con le sue minacce nemmeno tanto velate a Moro?
La P2 insediata ai vertici burocratici e militari?
L’atteggiamento filo arabo del governo italiano? Il “lodo Moro”?
E perché Moro? Andreotti, presidente del consiglio, disse di aver avvertito la sua famiglia che sarebbe potuto accadere anche a lui. Invece, rapirono un politico la cui corrente nella DC delle correnti era del tutto minoritaria.: mai una percentuale di iscritti a due cifre.
Perché lui?
Non era un uomo di potere, ha raccontato Corrado Guerzoni a Miguel Gotor, storico e membro dell’ultima Commissione d’inchiesta parlamentare: “bensì era il potere nella sua indivisibilità e unicità”.
Qui potrebbe essere la chiave del perché proprio lui. Non il politico del contingente, perché, come raccomandò al figlio Giovanni dalla prigionia: “fare politica come studio ed esperienza, ma poi allontanarsene…vi sono in politica fattori irrazionali che creano situazioni difficilissime”.
Non a caso, quando De Gasperi chiese a Montini di indicargli un giovane per aiutarlo nella attività corrente di governo, l’antico Assistente della Federazione degli Universitari cattolici gli indicò Giulio Andreotti e non Aldo Moro: “l’uomo, buono, onesto, a noi caro” per la liberazione del quale, da papa, arriverà a scrivere “agli uomini delle Brigate Rosse”, e, sofferente, ne celebrerà il funerale in San Giovanni “absente cadavere”.
Dirà, sempre Cossiga, a Claudio Sabelli Fioretti: “Andreotti è stato un grandissimo uomo di governo, Moro un grande architetto politico” e scriverà ” Moro non appartiene alla schiera dei Cavour, Giolitti, Mussolini, De Gasperi. Semmai a una categoria di personaggi intellettualmente e forse anche moralmente più alti come Gioberti, Cesare Balbo, Mazzini, Cattaneo, don Sturzo, più attenti alle ragioni della politica intesa come arte dello sviluppo della società civile che come arte di governo dello Stato”.