Lo “Yom Kippur del XXI secolo” si va delineando come l’ennesimo scontro tra fondamentalismo islamico e mondo occidentale.
Sconcertante è apparsa subito la palese impreparazione dell’intelligence israeliana, sia dello Shin Bet (Servizio di Sicurezza) che dell’AMAN (apparato informativo militare): il cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur, in concomitanza con la robusta opposizione popolare alle iniziative del governo guidato da Netanyahu, avrebbero dovuto allertare le antenne informative di Tel Aviv, tradizionalmente molto ben attrezzate nei confronti della minaccia terroristica palestinese.
Ma è chiaro come lo sviluppare adeguata azione humint nei confronti di formazioni ideologicamente orientate (quali erano quelle palestinesi dagli anni ’70, addestrate dal blocco sovietico) fosse relativamente più agevole che non reclutare fonti tra le file di militanti ispirati da una fede religiosa tanto radicata da spingerli anche all’estremo sacrificio della vita.
Quella che a prima vista sembra essere una guerra asimmetrica tra Hamas e Israele sta prendendo sempre più i caratteri di una guerra per procura tra Iran e lo Stato ebraico.
Dopo le prime fasi dell’attacco portato dagli jihadisti della Striscia di Gaza, sono infatti apparsi sulla scena, a nord, i miliziani di Hezbollah, mentre l’Iran ha espresso solidarietà e plauso ad Hamas per le iniziative prese, che presentano i caratteri di operazioni belliche vere e proprie commiste ad azioni terroristiche.
Non inganni la diversa matrice islamica tra i filoiraniani sciiti e i militanti di Hamas sunniti: i motivi di frizione tra le due interpretazioni religiose cessano di esistere di fronte al nemico comune: Israele.
La “guerra silenziosa” tra Israele e Iran, in corso da anni per il timore del primo che il secondo realizzi i suoi programmi atomici, ha già prodotto lutti su entrambi i fronti, ma sembra ora aver raggiunto una fase apertamente bellica.
Gli sviluppi diplomatici che avevano portato ad un concreto avvicinamento tra Tel Aviv e le potenze arabe della zona (gli “accordi di Abramo”) non potevano che allarmare il governo di Teheran, sempre più isolato nell’area e a livello internazionale.
Anche i mullah devono infatti confrontarsi, negli ultimi tempi, con un malessere sociale interno che, unito al discredito internazionale, non fa che destabilizzare il governo iraniano: quale migliore risposta di un’iniziativa bellica?
In ultimo, va sottolineata la reazione quasi “pavloviana” di alcune frange dell’estrema sinistra italiana: la colpa della guerra sarebbe dell’Occidente, che per troppo tempo ha chiuso gli occhi di fronte agli atteggiamenti persecutori del governo e dei coloni israeliani verso i palestinesi.
Sembra una riedizione in chiave medio orientale di alcune argomentazioni espresse dalla medesima area politica in ordine al conflitto russo-ucraino: la colpa sarebbe degli USA e della NATO, fautori di una politica minacciosa nei confronti della Russia.
Insomma: la colpa sarebbe sempre di altri, e non di chi aggredisce, senza far distinzioni tra obiettivi militari e vittime civili.