Nel corso della storia cinese, il controllo assoluto del potere centrale sui funzionari, in particolare quelli militari, è stata necessità imprescindibile e strutturale, per garantire la stabilità del sistema. Fin dalle antiche dinastie imperiali, il timore che comandanti regionali, governatori militari o capi di guarnigione potessero accumulare troppo consenso, mezzi armati e autonomia ha indotto il potere imperiale a mantenere una sorveglianza rigida e continua sulle gerarchie intermedie. La figura del generale potente ma leale è sempre stata ambigua: indispensabile alla difesa dello Stato, ma potenzialmente pericolosa per l’unità politica. A differenza delle esperienze storiche occidentali, dove si sono consolidate forme di bilanciamento tra poteri o rotazioni consensuali della leadership, in Cina la legittimità dell’autorità si è sempre basata su un principio verticale, dove il sovrano si afferma non attraverso il contratto sociale, ma per superiorità morale e ordine “che vien dal cielo”. L’intera architettura dello Stato imperiale e in seguito del Partito-Stato si è fondata sulla necessità di prevenire fratture interne, storicamente la principale causa del collasso dinastico, quasi sempre per effetto di ribellioni militari o ambizioni personali.
Per questo motivo, il tradimento non era solo punito, doveva essere “annientato”. I trasgressori venivano spesso perseguitati insieme alla propria rete di fedeli, a volte con estensione della pena alla famiglia intera, secondo la spietata dottrina delle “nove generazioni”.
Il caso emblematico del generale Wu Sangui che nel XVII secolo facilitò l’ingresso dei Manciù, è rimasto nella memoria collettiva come l’incarnazione dell’infamia. Le principali dinastie cinesi, dai Qin ai Tang, fino ai Ming e Qing, registrarono decine di epurazioni preventive, anche in assenza di prove formali, secondo la logica per cui “la stabilità viene prima della giustizia”. Questo paradigma si è mantenuto anche nel XX secolo: sia il Kuomintang che il Partito Comunista Cinese hanno ereditato la visione per cui la fedeltà ideologica è il cardine della disciplina. L’Esercito Popolare di Liberazione (PLA), fin dalla sua nascita, non risponde alla nazione ma direttamente al Partito. Come da tradizione, le campagne anticorruzione di Xi Jinping si inseriscono pienamente in questa continuità storica. Esse rappresentano una chiara misura preventiva per impedire che si sviluppino centri di potere autonomi, in grado di minacciare la catena gerarchica unitaria, in un sistema che non contempla alternanza consensuale né pluralismo competitivo, dove qualsiasi concentrazione di potere esterna al centro viene percepita come una minaccia esistenziale.
Xi Jinping ha rafforzato questa tradizione millenaria con strumenti moderni, come la Legge sulla Supervisione del 2018 e un articolato sistema di valutazione ideologico-politica dei quadri. L’obiettivo è sempre lo stesso: evitare che la lealtà si disperda e che il potere si dislochi. La centralità della disciplina e del controllo sui funzionari ha profonde radici nel pensiero politico cinese, in particolare nella dottrina del Legalismo (法家), sviluppata durante il periodo degli Stati Combattenti. Autori come Han Feizi ritenevano che il buon governo dovesse fondarsi non sulla virtù individuale, ma su un sistema impersonale di leggi, premi e punizioni. La lealtà assoluta al sovrano era ritenuta l’unica garanzia d’ordine. Da qui l’idea che i funzionari dovessero essere sorvegliati tramite meccanismi incrociati e rigidamente standardizzati, per evitare che diventassero autonomi.
La dinastia Qin (221–206 a.c.) adottò pienamente questi principi, fondando una burocrazia fortemente centralizzata. Questo impianto si è perpetuato fino all’età imperiale e ha trovato nuova linfa durante l’epoca comunista, dove il Partito-Stato ha mantenuto l’idea che la disciplina interna rappresenti la spina dorsale della sovranità. La “battaglia a tutto campo” contro la corruzione, rilanciata da Xi nel 2025, riecheggia proprio questo impianto ideologico: la legge deve prevalere sugli uomini e ogni deviazione deve essere sanzionata senza esitazione.
Di conseguenza la campagna anticorruzione è stata elevata a priorità strategica. Il concetto di Zǒng Tǐ Zhàn (battaglia a tutto campo, 总体战), che era già presente nei discorsi di Xi dal 2022, è diventato il fulcro operativo della nuova fase. Formalizzata nei documenti del Partito e del PLA, questa strategia punta alla verticalizzazione del comando e all’integrazione tra livelli politici, militari e civili. Xi considera la lealtà assoluta delle forze armate una condizione necessaria per la sopravvivenza del Partito e per la sicurezza nazionale, soprattutto in un contesto geopolitico segnato dal rischio di conflitto su Taiwan, dal confronto con gli Stati Uniti e da un crescente isolamento tecnologico. La trasparenza nella catena logistica, l’integrità dei comandi e l’adesione ideologica ai principi del Partito sono considerate fondamentali per assicurare la “prontezza al combattimento”, spesso evocata nei discorsi ufficiali.
Tra il 2023 e il 2025, le indagini disciplinari hanno colpito figure di alto livello, rivelando la profondità della crisi interna. Tra i casi più eclatanti vi sono quello del generale Li Shangfu, ex ministro della Difesa, rimosso nell’ottobre 2023 e espulso dal Partito nel giugno 2024 per corruzione negli appalti militari; Wei Fenghe, ex comandante della Forza Missilistica, rimosso per abuso di potere; Miao Hua, commissario politico della Commissione Militare Centrale, sospeso nel novembre 2024; Tan Ruisong, ex presidente di AVIC, rimosso nel febbraio 2025; He Hongjun, morto in circostanze sospette durante un’indagine; e infine il caso clamoroso di He Weidong, vicepresidente della Commissione Militare Centrale, rimosso nell’aprile 2025, prima volta dal 1967 per una figura di quel rango. Anche Tang Yong, vice segretario della Commissione Disciplinare Militare, è stato allontanato. La quantità e la qualità delle epurazioni hanno rafforzato in Xi Jinping la convinzione che il vecchio sistema disciplinare fosse inadeguato, permeabile a clientele e privo di efficacia.
La nuova strategia disciplinare si articola su due direttrici: da un lato, una centralizzazione estrema del potere; dall’altro, una rete di sorveglianza orizzontale che collega ambiti politici, militari e amministrativi. Le principali misure includono l’attuazione rigorosa della Legge sulla Supervisione, la riforma delle regole per la promozione, la limitazione del potere discrezionale, nuovi programmi di formazione politica per i quadri e sistemi di valutazione che misurano moralità, fedeltà e competenza. Anche gli appalti, i contratti e le catene di approvvigionamento sono ora soggetti a controlli più rigidi.
L’evoluzione della campagna nel 2025 mostra chiaramente che Xi non intende fermarsi. I segnali ufficiali parlano di un processo permanente e strutturato, che punta a trasformare il sistema disciplinare in un dispositivo di comando continuo. La “battaglia a tutto campo” non è da considerarsi una misura emergenziale: è un modello duraturo, necessario per Xi. Il modello di potere imposto al funzionario statale prevede l’obbedienza, misurata non più solo in termini di efficacia operativa, ma soprattutto in coerenza con la linea ideologica del Partito e, in ultima istanza, con la volontà del leader. La fedeltà a Xi Jinping è diventata il parametro centrale, spesso persino più rilevante della competenza.
Nell’attuale contesto internazionale, segnato da crisi regionali e dalla ridefinizione degli equilibri globali, il controllo politico totale del PLA è considerato un valore imprescindibile per scongiurare qualsiasi rischio di debolezza percepibile da attori esterni. La sfida, tutt’altro che facile, è quella contro la “corruzione della lealtà”. Ogni ufficiale diventa così parte di una battaglia invisibile per la conservazione dell’ordine politico e per la sopravvivenza stessa della struttura centralizzata del potere.