Il decennio dell’unipolarismo americano, approssimativamente identificabile come il lasso di tempo che va dalle elezioni di Bill Clinton nel 1992 fino agli attacchi terroristici del 2001, di concerto con il monopolio anglosassone, dominarono la sfera geopolitica data l’assenza di una Nazione che, all’epoca, potesse contrastare la potenza statunitense.
Con la disgregazione dell’URSS e del partito comunista, gli Stati Uniti misero in atto una rotazione geografica degli spazi centrali, evitando così la guerra come unico espediente post dissoluzione: riunificazione tedesca, contenimento nel golfo persico dei Soviet ed estensione dell’ordine egemonico liberale divennero il paradigma della politica estera americana.
In concomitanza con la prima guerra del Golfo, prese vita un nuovo ecosistema globale; da bipolare il mondo diventò unipolare, con un unico attore che comandava lo spazio: gli Stati Uniti d’America.
Mentre il bipolarismo, consolidato da quaranta anni, fissò spazi, attori e confini geografici, l’equilibrio precario americano composto dall’aspirazione – che mai vide la luce del giorno – del modello imperiale romano, non riuscì ad imporsi sullo scenario internazionale come studiato a tavolino.
La fine dell’unipolarismo, dunque, sancì, verosimilmente, il declino americano; il sistema statunitense dal punto di vista ideologico implose, ma nella realtà perse lo status imperiale che gli impedì di raggiungere il bramato obbiettivo di potenza egemone mondiale che, tramite la promozione della democrazia e della tutale dei diritti umani, preservasse la pace e la sicurezza mondiale.
Sul piano della globalizzazione, si riscontrò che questa apportò costi e pesi che gli istituti economici mondiali non riuscirono a sostenere, facendo andare così in default i Paesi – e di esempi lampanti ce ne sono – come accaduto in Argentina, Messico o Russia.
Il fallimento americano ha, in un secondo momento, condotto all’irrefutabile e liturgica idea che la nuova potenza ordinatrice in espansione fosse la Repubblica Democratica Cinese, ed è proprio qui che va posta l’attenzione. La pacifica ascesa sinica assimilò valori internazionali e economici che ne permisero la crescita in concomitanza della globalizzazione che poi, successivamente, con la crisi del 2008, sovvertì i ruoli portando l’America in crisi e la Cina in ascesa.
Alla fine degli anni ’90, l’intelligence cinese analizzò limiti e fragilità degli Stati Uniti, ed è proprio anatomizzando le vulnerabilità strutturali della potenza militare americana che si arrivò ad un compimento, sebbene nessun attore fosse in grado di fronteggiarla sul campo: la conclusione fu una simmetria dell’ostilità, uno stato più debole che combatte contro un colosso mondiale – nonostante la disparità di risorse – attraverso minacce cibernetiche, terroristiche o finanziarie; dunque, l’assenza di spazi in un conflitto asimmetrico mise in ginocchio gli USA, Al-Qaeda insegna.
Gli Stati Uniti, a seguito di quel nefasto 11 settembre, cominciarono una guerra – approvata dalla CI – mettendo fine all’architettura sovranazionale di quel periodo; il Pentagono si riservò il diritto di replica che, ribaltando il concetto di asimmetria, colpì a morte il nemico più debole attuando una risposta a carattere imperialista.
La guerra del terrore può essere – analiticamente – giudicata con implicazioni ambivalenti e importanti più di quella in Iraq, in quanto le caratteristiche spaziali che la differiscono hanno fatto sì che gli scarponi americani calpestassero il cuore del medio oriente senza essere contrastati per la prima volta.
L’errore americano – come sostiene Brzezinski – è, e sempre sarà, quello di non considerare appieno la polivalenza geopolitica degli attori internazionali; in passato questo atteggiamento ha favorito l’ascesa di quelle che oggi consideriamo Superpotenze, imparando così severe lezioni che serviranno a dar forma al futuro.