La storia dell’energia, o meglio dei consumi energetici, è una storia di accumulazione.
Negli ultimi due secoli, tutte le fonti energetiche hanno visto il loro utilizzo aumentare in modo continuo. Se nel 1800 si consumavano 5mila 653 TWh di energia, di cui 5mila 556 da biomassa tradizionale -soprattutto legno- e 97 TWh da carbone e null’altro, nel 2021 se n’è consumata per 167mila 781 TWh, di cui 11mila 111 TWh da biomassa tradizionale, 41mila 964 TWh da carbone, 48mila 381 TWh da petrolio, 6mila 789 TWh da nucleare, 21mila 082 TWh da fonti rinnovabili, soprattutto idro e poi eolico, solare e biocarburanti.
La domanda di energia continua a crescere perché si diventa più ricchi e si è sempre di più. Se non si riesce ad aumentare in modo significativo l’efficienza energetica, la crescita, anno su anno, continuerà a essere alimentata. Il che rende la sfida della transizione energetica ancora più difficile da vincere: le nuove fonti di energia a bassa emissione di carbonio non solo devono riuscire a soddisfare la crescente domanda, ma devono anche sostituire i combustibili fossili.
La storia dell’energia è anche una storia di simbiosi. Per estrarre carbone serve molto legname; per estrarre petrolio serve acciaio e per produrlo serve carbone. Fate voi l’elenco di cosa serve per costruire una diga per alimentare un impianto idroelettrico, per installare una turbina eolica o un pannello solare. Per produrre energia serve energia. Facciamo un gran parlare di nuove fonti energetiche, molto si discute di nuove energie, ma quelle che usiamo oggi sono antiche.
Lo avete notato dai dati prima riportati? Nel 2021 l’energia prodotta con il legno è stata, nel Mondo, quasi il doppio di quella nucleare. In Europa, nel 2016, il 45 per cento dei consumi da energia rinnovabile sono stati coperti dal legno. Il consumo di Carbone e petrolio continua a crescere.
Assumiamo che solare e eolico siano diventati competitivi, anche dal punto di vista economico, considerando sia la filiera completa di produzione, sia la gestione del fine-vita, anche rispetto al carbone. Si potrebbe quindi pensare che finalmente, dopo tante false partenze, la transizione energetica sia davvero avviata, che il mondo stia per cambiare in modo sostanziale il mix delle fonti primarie.
Il condizionale è d’obbligo e vediamo perché.
Attenzione: nessuno si sogna minimamente di criticare la “transizione”, intendendo con questo termine lo sviluppo delle fonti rinnovabili così da “transire” dai combustibili fossili. Però sono in tanti, in troppi, ad aspettarsi dai pannelli solari e dalle turbine eoliche più di quanto possano offrire.
Farlo è pericoloso e del tutto irragionevole.
Lasciamo perdere le ideologie e le scuole di pensiero teologico. Guardiamo ai fatti, ai numeri. La produzione di elettricità rappresenta solo il 40 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica e il 40 per cento di questa elettricità è già decarbonizzata. Il che implica che azzerare, entro il 2050, l’uso di combustibili fossili nella produzione globale di elettricità sarebbe un successo tanto straordinario, quanto insufficiente, rispetto agli obiettivi climatici.
Generare elettricità senza emissioni di carbonio non solo non è una novità, ma certamente possibile. Abbiamo le tecnologie e l’esperienza per farlo. Una cinquantina di paesi molto diversi – dall’Etiopia alla Svizzera, passando per Francia, Brasile o Uruguay – hanno già ampiamente decarbonizzato la loro elettricità.
Peccato però che non abbiano registrato un drastico calo delle loro emissioni totali. Come già accennato, le energie rinnovabili, come tutte le altre energie, sono intrappolate da una rete molto complessa e molto ampia di simbiosi materiali. La costruzione di un’infrastruttura di produzione di energia rinnovabile su scala globale per produrre i pannelli solari e le turbine eoliche, nonché i materiali che li compongono, costerebbe circa 50 gigatonnellate di CO₂. In altri termini, il 3 per cento dei combustibili fossili dovrebbe essere destinato alla produzione di infrastrutture per le rinnovabili. Ancora più problematiche sono le simbiosi che avvengono a valle, ovvero dal lato consumi.
I pannelli solari e le turbine eoliche riducono l’impronta di carbonio della produzione di elettricità, ma questa elettricità alimenta un mondo che si basa e si baserà ancora per molto tempo sul carbonio. Le energie rinnovabili non sono in grado di produrre in modo competitivo su scala sufficiente e nei tempi richiesti materiali come acciaio, cemento o plastica, da cui dipendono le infrastrutture, i macchinari e la logistica contemporanee. Non dovete credermi, i fisici non credono, dimostrano.
Consideriamo, ad esempio, la produzione di acciaio. Annunci e previsioni industriali dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, parlano di qualche milione di tonnellate all’anno dopo il 2030. Poca roba, visti gli 1,7 miliardi di tonnellate di acciaio consumate ogni anno nel mondo. Possiamo produrlo utilizzando l’idrogeno come fonte energetica, anche se non primaria. Nel farlo continueremo a emettere CO2, anche perché dagli anni 2000 la quantità di CO2 emessa nella produzione di acciaio non è più diminuita. Altro caso. Dagli anni 2000 e dal cosiddetto “greening”, l’intensità di CO2 nella produzione del cemento è aumentata dell’1,5 per cento all’anno.
Dal 1990, le emissioni dei cementifici sono triplicate e rappresentano l’8 per cento delle emissioni globali di CO2. Prendiamo la plastica, responsabile dal 3 al 5 per cento delle emissioni globali di CO2. Nulla sembra essere in grado di limitarne la crescita. Nulla sembra poterla fermare. Oppure vogliamo parlare dei fertilizzanti azotati, responsabili, in fase di produzione, dell’1,5 per cento delle emissioni? Certo, potremmo, forse, riuscire a ridurre tale valore usando idrogeno “verde”, ma cosa fare del 5 per cento delle emissioni causate dai batteri del suolo quando trasformano il fertilizzante in ossido di azoto?
Insomma, turbine eoliche e pannelli solari sono eleganti tecnologie per produrre elettricità, ma sono poco, molto poco significative nella produzione dei materiali strategici come quelli cui si è accennato poc’anzi. Affermare che nei prossimi trent’anni l’innovazione possa decarbonizzare l’industria siderurgica, i cementifici, l’industria della plastica, la produzione di fertilizzanti e il loro utilizzo, è un puro atto di fede.
Le tendenze, nonché le evidenze, vanno tutte in direzione opposta. Considerati nel loro insieme, i quattro materiali di cui si è parlato -acciaio, cemento, plastiche e fertilizzanti- rappresentano più di un quarto delle emissioni globali. Da soli sono sufficienti a rendere irraggiungibile l’obiettivo dell’accordo di Parigi: mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5 °C.
I paesi dell’UE lo hanno sottoscritto e hanno convenuto di avviarsi sulla strada che porterà l’Unione Europea a diventare la prima economia e società a impatto climatico zero entro il 2050.
Ottimo proposito. Peccato che non sarà possibile raggiungere l’obiettivo prefissato per il 2050.
Se l’elettricità “verde” darà energia allo stesso mondo grigio di automobili, cemento, acciaio, plastica e agroindustria di oggi, nel migliore dei casi il riscaldamento globale sarà solo rallentato.
Quando smetteremo di raccontarci storie, senza apprendere le lezioni della storia?
NdA: Ringrazio Jean-Baptiste Fressoz, storico, ricercatore al CNRS, autore di “Sans transition. Une nouvelle histoire de l’énergie” (Seuil, in pubblicazione, gennaio 2024) ed editorialista del quotidiano “Le Monde”, testata su cui ha pubblicato, il 30 giugno 2023, l’articolo “Transition écologique : Il est déraisonnable d’attendre des panneaux solaires et des éoliennes plus qu’ils ne peuvent offrir“, da cui ho tratto a piene mani.
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