Ci sono stato. Ho vissuto tre anni a Pechino, distretto di Changping, al 10 della Dongguan Road. Mi sono perso per le sue strade. Ho visto l’alba illuminare le mura della Città Proibita. Fatto ginnastica nei parchi. Apprezzato i servizi della sanità pubblica. Sopravvissuto alla quarantena causa Covid, da non augurare a nessuno. Sono tornato da poco. Un’esperienza indimenticabile. Imparato molto. Capito non tanto, per cui non aspettatevi spiegazioni o interpretazioni brillanti. Consideratele semplici intuizioni sul Paese dai cinque fusi orari, ridotti nel 1949, per decisione politica a uno, ovviamente quello della capitale, Pechino. Un miliardo e 400 milioni di cinesi vivono su un territorio di 9 milioni e 600 mila chilometri quadrati. Sembrano tanti, ma la densità di abitanti per chilometro quadrato da noi in Italia è pari a circa 198. In Cina sono “solo” 146.
In molti parlano di Cina come se fosse un qualcosa di unico e integrato. Non è così. La Repubblica Popolare Cinese è uno stato multietnico unitario. Ci sono 56 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti che, secondo i linguisti, parlano 297 lingue diverse, anche se l’autorità preposta ha stabilito che le lingue “ufficialmente” parlate in Cina debbano essere 13.
In tanti, troppi, stanno demonizzando ideologicamente la Cina. C’è chi dichiara che hanno già vinto la guerra. Quale sia, non si sa.
Raffinati rappresentanti dell’intellighenzia internazionale tracciano parallelismi con la guerra fredda USA-URSS del tutto improbabili perché semplicemente inesistenti.
Non ci si sforza a sufficienza per capire meglio la Cina.
Il presidente Xi Jinping ha annunciato l’intenzione della Cina di essere leader in tecnologie critiche come l’intelligenza artificiale e la biologia sintetica entro il 2030.
Dal canto loro, molti analisti prevedono che il PIL cinese (misurato ai tassi di cambio di mercato) supererà quello degli Stati Uniti all’inizio del prossimo decennio.
Domanda: è corretto inferire da queste affermazioni che l’obiettivo strategico della Cina sia quello di sostituire gli Stati Uniti come prima potenza mondiale entro il centenario del regime comunista nel 2049?
La risposta è negativa. Eppure sono in molti a esserne certi. Ad avere paura. L’ignoranza genera sempre terrore.
Se di paralleli si vuole parlare, le attuali paure dell’Occidente nei confronti della Cina ricordano molto quelle che si avevano negli anni 1990 nei confronti del Giappone. Lo si studiava, copiava, si prendeva a esempio. Lo si considerava invincibile. Sbagliando su tutta la linea. Gli eventi hanno dimostrato che non si era capito nulla. Anche allora.
La Cina ne ha di problemi e anche grossi.
Deve fronteggiare il rischio di cadere nella trappola del ceto medio.
40 anni di politica di una sola nascita per famiglia hanno lasciato il segno. Troppi anziani, pochi giovani. Lo stato sociale non ce la può fare. Non con le regole attuali.
La demografia non aiuta. Il vantaggio competitivo che derivava dal “bonus popolazione” nel tenere i salari bassi, sta evaporando. Un numero crescente di gruppi industriali occidentali sta lasciando la Cina per trasferirsi in altri paesi asiatici con mano d’opera a basso costo.
Il mercato interno non è ancora sufficientemente aperto, in particolare quello finanziario, nonostante le promesse fatte nel 2001 quando la Cina venne accettata come membro del WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
La crescita cinese nelle industrie a elevato valore aggiunto è stata alimentata dai capitali esteri. Fino a oggi ci sono stati molti annunci su quanto farà il governo per sostituirli, ma poche azioni.
Le disuguaglianze interne crescono. Ufficialmente il governo cinese non permette la migrazione interna dalle campagne alle città. Però ha chiuso un occhio. Anzi tutti e due. Oggi le megalopoli cinesi sono popolate da una preoccupante percentuale di soggetti che non possono chiedere la residenza, quindi non godono di alcun diritto, protezione sociale, possibilità di iscrivere i figli alle scuole pubbliche. Fantasmi.
L’orologio delle varie bolle speculative -immobiliare, assicurativa, bancaria, azionaria- continua a ticchettare. Una loro esplosione avrà conseguenze solo catastrofiche.
Da quando Xi è leader, il governo ha cercato di fare crescere le imprese statali, di renderle più potenti, invertendo la tendenza di liberalizzazione dell’economia in atto da 40 anni.
Perché rinnegare una politica di grande successo, che ha alimentato la crescita della Cina in modo continuo e formidabile?
Perché ostacolare aziende dalla grande dinamica come Alibaba o Tencent?
Perché riproporre il modello economico basato sulle aziende di stato?
Semplice. L’eccessiva liberalizzazione dell’economia si scontra con la “regola” del Partito Comunista Cinese, pur sapendo che l’imposizione di controlli esagerati sull’economia comporta, di fatto, la perdita di controllo del paese.
In altre parole, quanto più l’economia non cresce, tanto più il potere di chi governa diminuisce.
Una dinamica che è al cuore dei 3270 anni di storia della Cina, considerando che le testimonianze scritte più antiche risalgono al 1250 a.C..
Nei secoli si sono avvicendati periodi di pace e prosperità a fasi belligeranti e di grande instabilità sociale. Cicli che ricordano, per molti versi, quelli ipotizzati da Nikolai Kondratiev prima e da Joseph Schumpeter poi, per descrivere le dinamiche economiche.
L’imperatore cinese, oltre a essere di origine divina e gestore del Celeste Impero, celeste perché divino, è il responsabile del benessere del suo popolo. Fino a che esso cresce, l’imperatore rimane al suo posto. Se la crescita della Terra di Mezzo (altra denominazione della Cina), fra Cielo e Terra, passato e presente, s’interrompe (non importa se per motivi interni o esterni) è perché l’imperatore non soddisfa i doveri a lui assegnati. Quindi si cambia. Se ne fa un altro.
Xi può essere considerato l’imperatore attualmente in carica. Fino a quando il paese cresce, è al sicuro. Altrimenti…
Il paese attualmente non sta crescendo come ha fatto, o come si è raccontato di avere fatto, nel recente passato.
La storia dimostra che la Cina è un organismo molto delicato, in un perenne stato di non equilibrio. Se viene continuamente alimentato rimane stabile. Se si interrompe uno dei supporti essenziali per l’equilibrio, se viene sollecitato oltre la sua capacità di resistenza, diverge in modo quasi istantaneo. La rivoluzione è sempre alle porte della Grande Muraglia
La storia spiega anche il revanscismo cinese. Nel XIX° secolo le potenze estere hanno abusato della debolezza del declinante impero Quing. La Cina è stata umiliata. L’imperialismo britannico, russo e poi americano e giapponese, il colonialismo tedesco e portoghese, hanno lasciato cicatrici indelebili.
Le guerre dell’oppio sono ancora vive nella memoria dei cinesi.
Gli anni dell’occupazione nipponica sono il tema dominante di un filone cinematografico, proposto quotidianamente sulle reti televisive cinesi, dove i giapponesi sono cinici, sadici, cattivi e i cinesi sono nobili, eroici, indomabili. Non è finzione, è ricordo.
A titolo di informazione, se togliete i giapponesi e li sostituite con i controrivoluzionari, avrete il secondo filone di film che potete vedere, ogni giorno, alla televisione. A voi la scelta.
Quindi, qualunque cosa venga fatta in Cina deve essere il meglio al mondo: il ponte più lungo, l’aeroporto più grande, il treno più veloce, il robot più antropomorfo, le olimpiadi più belle. Agli USA la cosa non piace per niente.
Se le cose cinesi non sono il meglio al mondo, lo saranno. Perché gli investimenti che vengono fatti per l’educazione, formazione, ricerca, innovazione sono prioritari e massicci. I risultati si vedono. La Tsinghua University ha tolto al MIT lo scettro di migliore dipartimento di informatica e robotica al mondo. Il comparto aerospaziale cinese non è secondo a nessuno. Il supercalcolo non ha segreti e soprattutto le macchine che lo eseguono hanno solo componentistica cinese. Non si sviluppa una tecnologia in Cina, ma l’intera filiera di cui essa fa parte.
Se i cinesi dicono che raggiungeranno un determinato obiettivo, possono sbagliarsi sui tempi, non sui risultati.
Taiwan. La Cina la considera una provincia rinnegata. A tutti gli effetti parte integrante della Cina. Non senza motivo. Se quella “Repubblica”, invece di insediarsi a Salò, si fosse stabilita all’isola di Giannutri per poi dichiararne l’indipendenza dall’Italia e se il governo italiano, una volta proclamata la Repubblica, quella vera, democratica, se la fosse ripresa, nessuno avrebbe avuto qualcosa da dire.
Tenendo conto dei fattori di scala, è quello che è accaduto fra Cina e Taiwan.
Il generalissimo Chiang Kai-shek, persa la guerra civile sul continente, evacuò il suo governo nazionalista a Taiwan il 7 dicembre 1949. 2 milioni di persone, prevalentemente militari, membri del Kuomintang, intellettuali, élite industriale, si trasferirono sull’isola, sommandosi ai 6 milioni di residenti.
Seguirono 38 anni di legge marziale, il tempo del “Terrore Bianco”. Sempre con la presenza e non discreta ingerenza degli USA.
Il resto è attualità.
Gli Stati Uniti, che hanno sempre giocato un ruolo importante nella vita di Taiwan, continuano a farlo. Vedi recente visita della portavoce della Camera, Nancy Pelosi. Xi dichiara che stanno giocando con il fuoco. Un conflitto militare USA-Cina avrà esiti solo catastrofici. L’impatto di uno scontro fra i due sull’economia mondiale sarà devastante. La probabilità di innescare un conflitto mondiale è troppo elevata.
L’instaurarsi di una guerra fredda non presenta scenari migliori. I temi, non più procrastinabili, dell’interdipendenza ecologica, crisi pandemiche, modifiche climatiche, carenza di acqua, richiedono cooperazione, non contrasto.
La Cina è una sfida per il resto del mondo. Così come il resto del mondo lo è per la Cina. Non per i cinesi. Vero che non si inizia anno scolastico senza una settimana di esercitazioni paramilitari per rafforzare lo spirito patriottico, ma i cinesi non sono guerrafondai. Non vogliono essere umiliati ancora, non vogliono più soffrire. La povertà di centinaia di milioni di persone non è dimenticata. Non se ne parla, ma non si cancella la fame che fece morire, fra il 1959 e il 1961, da 15 a 55 milioni di persone. Cifre certe non ci sono e mai ci saranno.
I cinesi non vogliono guerre.
Il presidente Xi dice di interpretare i sogni del popolo cinese quando afferma: “Dobbiamo compiere sforzi persistenti, andare avanti con volontà indomita, continuare a portare avanti la grande causa del socialismo con caratteristiche cinesi e sforzarci di realizzare il sogno cinese di un grande ringiovanimento della nazione cinese”.
Il Partito potrà anche presentare l’attributo “comunista”, ma non se ne parla mai.
Digressione: ho letto, confesso in modo parziale, i due libri che raccolgono i discorsi di Xi Jiping e mai ho trovato il termine “comunista”. Sempre e solo “socialismo con caratteristiche cinesi”.
Sempre Xi Jiping: “Per realizzare la strada cinese, dobbiamo diffondere lo spirito cinese, fulcro che combina lo spirito della nazione con il patriottismo e lo spirito del tempo con la riforma e l’innovazione”.
Il che significa, in altre parole, una Cina più forte, con una capacità militare più grande.
Xi e il partito si appellano al nazionalismo, dichiarano che la Cina è invincibile se conta sulle sue sole forze, propagandano il “Sogno Cinese”. Il loro sogno cinese. Il sogno del Partito è una cosa, quello dei cinesi, ben altro.
Sempre ricordarsi che non esiste un singolo, predeterminato futuro. Ci sono sempre possibili futuri, scenari che possono essere progettati e realizzati.
Scenari che devono innescare e alimentare giochi a somma positiva, possibili, se e solo se, non si umilia la Cina.
Sarebbe la volta di troppo.
Potrebbe essere l’ultima.