Oggi menzioniamo un nome, citando uno di quei casi in cui il solo “ricordare” non è stavolta sufficiente, non è abbastanza, quasi non serve a niente, se non si agisce. Oggi riportiamo uno di quei vergognosi eventi di una società da terzo millennio che spesso si vanta di essere “civile”, qualunque senso volessimo mai attribuire a questo termine.
Oggi ricordiamo dunque il piccolo grande eroe Iqbal Masih e con lui altri milioni di piccoli Iqbal sparsi per il mondo. Quasi nessuno lo conosce, anche se alcune scuole portano il suo nome e un paio di film sulla sua vicenda sono stati prodotti.
Sono passati quasi 30 anni dalla sua morte, ma dopo il clamore iniziale è sempre un attimo arrivare all’oblio; evitiamolo, anche perché parliamo di un eroe, per di più di un eroe bambino, e di una piaga tutt’ora aperta. Il piccolo pakistano Iqbal Masih (1983-1995), assassinato a soli 12 anni, è simbolo di una lotta tutt’ora in atto, ben lontana dall’esser vinta, contro il lavoro minorile in Pakistan, che vede coinvolti circa un milione di minori ridotti in schiavitù, tra cui bimbi e bimbe di quattro anni.
Per dovere, precisiamo che questa ignobile piaga è presente anche in molti altri Paesi: ad oggi, nonostante il mondo intero conosca il problema, si stima che circa 160 milioni di bambini siano vittime di lavoro infantile, di cui quasi 97 mln in Africa, 50 mln in Asia, quasi 4 mln in Europa e Nord America e 8 mln in Sud America.
Cifre allucinanti, che ancora sono lì a pesare sulle nostre coscienze. Di fatto, l’attuale consumismo e le richieste di mercato (non solo occidentali) creano e favoriscono, nei Paesi più poveri, queste traviate vie di produzione a bassissimo costo ed a maggior lucro. Ci sono bambini vessati, dietro ai prodotti che spesso acquistiamo. Ma questa è un’altra storia.
La realtà, sotto gli occhi e nella coscienza di tutti, è che il piccolo pakistano, che a 12 anni, per via della denutrizione e dei maltrattamenti subiti aveva la corporatura di un bambino di 6, è riuscito a liberarsi, a divulgare la sua storia per aiutare i suoi compagni di sventura, ha lottato ed ha smosso cuori e portafogli, arrivando alle Nazioni Unite per denunciare al mondo questa nefandezza, senza volere nulla per sé. E perciò è stato ucciso, giustiziato, dai mostri mangiabambini che non muoiono mai, e non è una favola a lieto fine.
L’infanzia negata di Iqbal Masih, nato, manco a dirlo, in una famiglia poverissima, iniziò a circa 4 anni lavorando in una fornace; a 5 anni fu venduto dal padre, pare per circa 10 dollari americani, al proprietario di una fabbrica di tappeti. Ridotto in schiavitù, come tutti gli altri bambini invisibili che lavoravano con lui, viveva in condizioni disumane, sfruttato 16 ore al giorno, sottopagato (una rupìa, circa 3 centesimi al dì), sottoposto a botte e violenze: tanto è facile, a 5 anni si può essere picchiati senza alcuno sforzo e senza timore di reazioni.
Incatenato al telaio tutto il giorno con i compagni, cercò spesso di fuggire; ma veniva sempre ritrovato e, cosa aberrante, riconsegnato ai padroni dalle stesse autorità. Dopo ogni fuga veniva regolarmente punito ed infilato in una cisterna sotterranea cieca, che chiamava tomba, come raccontò prima di essere ucciso.
Nel 1992 però, una svolta: a circa 9 anni Iqbal e altri bimbi scapparono dalla fabbrica; si ritrovò nel mezzo di una manifestazione del Bonded Labour Liberation Front a favore della libertà e dei diritti dei bambini schiavi di titolari senza scrupoli. E fu così che Iqbal improvvisamente, sorprendentemente, ma in modo del tutto spontaneo, parlò e denunciò alla folla la miserrima situazione in cui versavano i piccoli schiavi nella fabbrica di tappeti in cui lavoravano.
Ovviamente fu la denuncia addolorata e triste di un bambino disperato, scarna nei termini ma spietatamente realistica, che però riuscì a penetrare nelle menti e nei cuori dei presenti, tra cui i giornalisti delle testate locali. Fu qui che Iqbal conobbe l’avvocato sindacalista Khan, leader del Fronte di Liberazione, che decise di aiutarlo, cambiando radicalmente la sua vita, votata fino alla fine alla lotta per i diritti dei minori.
Tornato in fabbrica, Iqbal si rifiutò di lavorare nonostante le violente percosse del padrone, che rincarò la dose dichiarando che il debito del padre del bambino, anziché diminuire, fosse aumentato per il cibo dato a Iqbal, dei suoi supposti errori di lavorazione, ed altre scuse. Per cui la famiglia fu costretta a partire, abbandonando del tutto il primogenito. Ma il bambino, liberato da Khan, che fece arrestare il padrone, venne ospitato in un ostello del Liberation Front e cominciò a studiare, partecipando allo stesso tempo a convegni mondiali sui diritti negati dei fanciulli lavoratori e sui diritti dell’infanzia.
Nel 1994, a Stoccolma, partecipò ad una azione di boicottaggio dei tappeti pakistani e la Northeastern University di Boston gli assegnò, con una categoria creata ad hoc per lui, il premio Reebok Human Rights Award: 15mila dollari, che egli donò per realizzare una scuola per gli ex bambini schiavi, invece di spenderli per sé stesso. Sempre nel 1994, Iqbal rifiutò una borsa di studio assegnatagli dalla Brandeis University of Massachussets per restare in patria a continuare la sua lotta.
Nel 1995 il piccolo oratore ottenne un grande successo mediatico con una conferenza contro il lavoro minorile, un clamore a livello internazionale che fruttò la liberazione, da parte del governo pakistano, di circa 3.000 bimbi-schiavi e la chiusura di molte fabbriche che si reggevano sul loro sfruttamento. Molti proprietari vennero arrestati con l’accusa di schiavitù e sfruttamento di manodopera infantile. E finalmente il piccolo eroe, riferendosi al suo aguzzino, dichiarò a gran voce: “Non ho più paura di lui, è lui che ha paura di me, di noi, della nostra ribellione”. Iqbal Masih lo sapeva, era ormai una mina vagante, un personaggio scomodo per gli orchi che si arricchivano vigliaccamente grazie a piccole creature, e dunque si palesarono le prime minacce di morte a lui rivolte.
Fu così che poco tempo dopo, ad aprile del 1995, una domenica di Pasqua, Iqbal venne falciato da una raffica di pallottole mentre pedalava per andare a messa (o per giocare) con due suoi cugini: freddato così, giustiziato, il corpicino intriso di sangue, la Bibbia in una tasca. Quanta paura suscitava questo piccolo grande ometto? Dopo l’omicidio, solo chiacchiere vaghe e contraddittorie: un processo inadeguato a chiarirne il movente, anche se per logica non poteva essere che uno solo, la vendetta della “mafia dei tappeti”, minacciata dall’attivismo di Iqbal Masih.
Tant’è, i suoi assassini furono liberati ed il giornalista che all’epoca riportò per primo la storia di Iqbal finì in tribunale accusato di “danneggiamento del commercio estero della nazione”. I due cugini riferirono dapprima che Iqbal era stato ucciso da un eroinomane; poi però, secondo il rapporto della polizia e un’ulteriore testimonianza dei cugini, pare che a sparare fu un agricoltore per un diverbio con Iqbal.
Dopo poche settimane, la Human Rights Commission of Pakistan, forse di parte, affermò che non vi erano prove che il mandante dell’assassinio fosse l’industria dei tappeti. Quindi a quasi 30 anni dall’omicidio ancora sussistono dubbi, considerando anche che i due cugini ritrattarono quanto da loro dichiarato.
Certo è, comunque, che il martirio di Iqbal non è stato vano. Grazie a lui, la situazione nelle fabbriche pakistane è divenuta nota e si tenta di migliorarla, in quanto molti esercizi europei pongono attenzione alla tipologia dei prodotti tessili importati sia dal Paese asiatico che dall’India, col vincolo che non debbano essere prodotti con lo sfruttamento minorile.
Di ciò purtroppo non vi è oggi la certezza assoluta. Entrambi questi Stati hanno fatto chiudere alcune fabbriche degli orrori, emanando anche delle leggi per la tutela del lavoro minorile che, tuttavia, viste le attuali statistiche, vengono spesso disattese: secondo un recente rapporto dell’Unicef, l’88 per cento dei lavoratori di questi Stati ha un’età tra i 7 ed i 14 anni.
Oltre 70 milioni di bambini svolgono lavori nocivi, a contatto con sostanze velenose o con macchinari pericolosi (Action Aid, 2023). In Burkina Faso bimbi di 8 anni lavorano nelle miniere e resistono alla fatica ed al dolore ricorrendo ad alcool, cannabis ed anfetamine. Non sono dimenticati, sono proprio ignorati. Sono invisibili. Ma anche questa è un’altra storia.
Il sacrificio di Iqbal non ha risolto il problema, ma lo ha portato alla ribalta. Il sacrificio di Iqbal non ha distrutto i mostri cattivi, ma è riuscito a salvare molti bimbi, adesso cresciuti, lui che non è riuscito a crescere; ma anche salvare un solo bambino è importante. Ricordiamoci di lui, ma in modo fattivo. I bambini non sono carne da macello, ma da secoli vengono abusati, e non solo per lavoro, per il tornaconto degli adulti e di intere società, che magari si definiscono civili. Ascoltiamolo ancora una volta, Iqbal: “Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite. Da grande voglio fare l’avvocato e lottare perché i bambini non lavorino affatto”. Gli hanno impedito di diventare grande, ma non di essere un grande.