Più di 150 anni or sono, la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808 -1871) scriveva: “Che le donne … del futuro rivolgano i pensieri al dolore e all’umiliazione di quelle che le hanno precedute … e ricordino con un po’ di gratitudine i nomi di quante hanno aperto la strada alla loro … felicità”. Ricordiamo allora una grande donna, colta, indipendente, controcorrente, mai sottomessa alle convenzioni della sua epoca, a suo tempo famosa, ma oggi dimenticata: ci restano di lei una stradina suburbana del milanese, col suo nome, una statua dedicatale da Milano, di cui i passanti del terzo millennio ignorano la storia, ed un viale all’interno di villa Doria Pamphilj a Roma. Celebre ai suoi tempi per bellezza, ardimento e anche ricchezza (sposandosi portò una dote parti a circa 4 milioni dei moderni euro), la giovanissima sedicenne anticonformista rifiutò, scandalosamente per l’epoca, di maritarsi col suo melenso cugino, sposando il principe Emilio di Belgioioso: giovane e bello, seppur sifilitico per la sua vita libertina, il rampollo sperperava il patrimonio di famiglia godendosi la vita. Il matrimonio fallì subito ma i due rimasero amici per tutta la vita. Ancora giovanissima, la Trivulzio iniziò la sua attività politica Risorgimentale (il suo obiettivo non era una monarchia, ma una repubblica italiana) entrando nella sezione femminile della Carboneria, decisione che le fruttò sia la persecuzione della polizia austriaca, che l’esilio in Svizzera e Francia, dove nel 1831 collaborò con la Giunta liberatrice italiana. Dopo la sua fuga, la polizia austriaca sequestrò tutte le ricchezze della principessa ma, pur essendo avvezza ad una vita agiata, per sopravvivere iniziò a lavorare come ricamatrice. Con l’aiuto economico della madre e, poi, con il dissequestro dei suoi beni, l’indigenza di Cristina durò poco ed affittò un appartamento nel centro di Parigi, divenuto un salotto culturale con artisti del calibro di Heine, de Musset, La Fayette, Liszt. La principessa, patriota attivista, viaggiatrice, imprenditrice, scrittrice, giornalista ed editrice, finanziava di tasca sua giornali patriottici, aiutava gli esuli italiani, e sovvenzionò anche un colpo di stato mazziniano, fallito, in Sardegna. Già trentenne, bellissima e corteggiatissima, divenne mamma di una bimba di cui non si saprà mai la vera paternità. Per quei tempi, altro scandalo. A questo punto la Trivulzio visse per anni studiando e scrivendo, traducendo in francese grandi opere italiane, per poi tornare nei suoi possedimenti a Locate, in Lombardia, dove attuò una vera e propria politica umanitaria: fondò asili per i bimbi bisognosi, scuole maschili e femminili per i più grandi; istituì una previdenza sociale per i contadini ed assistenza per le donne; impose la chiusura serale delle osterie azzerando quasi del tutto la delinquenza; costituì associazioni fra lavoratori, anticipando il sindacalismo; presentò il suo programma agli altri proprietari terrieri per farveli aderire, cosa che ovviamente non avvenne. In pieno Risorgimento, nel 1848, sempre con il proprio denaro, fondò il giornale Ausonio, e frequentò Cavour, Balbo, Carlo Alberto, Napoleone III ed altri. Con Mazzini, da lei molto stimato, ebbe però dei dissidi. Durante le Cinque Giornate di Milano allestì un esercito di 200 volontari per aiutare i rivoltosi; durante la rivolta della Repubblica Romana, Mazzini la incaricò di gestire gli ospedali, così creò di sana pianta le Ambulanze militari (basi della futura Croce Rossa), ricoverando perfino i nemici feriti; inventò la professione infermieristica (ancora inesistente, ma così necessaria) grazie all’aiuto di donne di ogni genere, dalle nobili alle prostitute. Venne criticata dai “benpensanti” e da Papa Pio IX anche per questo. Persino Manzoni la etichettò come “peccatrice”. Una principessa bella, ricca, con una lunga, ma inesistente serie di amanti, malata di epilessia com’era, e che viveva con fatica per non sottostare all’invasore, suscitava non solo curiosità, ma anche reazioni estreme. Dopo la sconfitta della Repubblica Romana, Cristina fuggì in Turchia con pochi mezzi, ma con un prestito comprò una proprietà, per fondare una colonia agricola per i profughi italiani; guadagnava soldi scrivendo articoli su vari Paesi, denunciando anche la condizione delle donne negli Harem. Nel 1855 gli austriaci le restituirono il patrimonio confiscato e lei tornò in Italia. Nel 1861, con il Paese finalmente unito, la principessa di Belgioioso si stabilì a Locate e si ritirò per sempre da ogni attività politica. Non era la principessa delle favole, la Belgioioso, ma una donna che ha precorso i tempi, indipendente, progressista e riformatrice, lontana dai cliché della sua epoca che lei odiava. Per Garibaldi e Cattaneo era la “prima donna d’Italia”. Quando tornò dalla Turchia tutti la dimenticarono, nonostante avesse donato sé stessa ed i suoi denari al Risorgimento. Il neonato Parlamento italiano la estromise dalla Storia. Lei non serviva più. Se fosse stata uomo sarebbe stata proprio un’altra… Storia.
Parliamo di lei non solo per ricordarla, per non dimenticarla, o per farla conoscere, ma soprattutto per trarre forza da un tangibile esempio di amore per la vita...
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