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AMAZON LICENZIA CHI SI LAMENTA DELLE CONDIZIONI DI LAVORO IN TEMPI DI COVID-19

di Umberto Rapetto
05/05/2020
in EDITORIALI
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Ci sono parecchie cose che dovrebbero rimanere indelebili tra i ricordi della nostra esperienza di questo brutto periodo segnato dal Coronavirus. Tra queste, i comportamenti di chi non ha tollerato le legittime rimostranze dei lavoratori che segnalavano le rischiose modalità di esecuzione delle attività loro demandate.

Abbiamo imparato a fare compere online, scoprendo la comodità (stavolta non il risparmio, visti i prezzi gonfiati per l’occasione) dello shopping attraverso le diverse piattaforme di commercio elettronico. A questa apertura a nuovi strumenti per fare la spesa, però, dovremmo abbinare anche quel briciolo di capacità critica nel selezionare i “non-luoghi” cui rivolgerci quando si decide di acquistare qualcosa.

Nella vita reale sappiamo evitare il negoziante scorbutico o l’esercente che maltratta i suoi dipendenti mettendo in imbarazzo chi si affaccia in quel locale pubblico. Forse certe nostre naturali reazioni dovremmo applicarle anche quando ricorriamo al web per trovare quel che ci serve per casa, per il nostro tempo libero o per il lavoro.

Dovremmo prendere esempio da Tim Bray, il top manager di Amazon che ha sbattuto la porta non tollerando le discriminazioni e i licenziamenti che la sua azienda ha operato nei confronti dei lavoratori che, “troppo critici”, avevano incrociato le braccia per scongiurare un contagio che sembrava loro agevolato dalle pessime condizioni lavorative irriguardose dell’emergenza in atto.

Il VicePresidente e qualificatissimo dirigente tecnico di Amazon Web Services, qualche giorno fa ha annunciato che il primo maggio sarebbe stato il suo ultimo giorno nella squadra di Jeff Bezos. Non era un “uomo qualunque”, ma un vero e proprio genio dell’informatica e soprattutto una persona abituata a non dimenticare principi e valori fondamentali.

Bray aveva detto che Amazon era “il miglior lavoro che io abbia mai avuto”, ma non ha saputo accettare il licenziamento dei dipendenti colpevoli di aver organizzato lo sciopero “May Day Strike” e ufficialmente allontanati per una eufemistica “violazione delle politiche interne”.

Tim Bray, prima di rassegnare le proprie dimissioni, aveva cercato – attraverso i canali ufficiali – di rappresentare il suo disappunto e le sue preoccupazioni, ma è stato completamente inutile e il suo grido disperato è rimasto inascoltato.

Ha scritto una lettera che non lascia indifferenti. “Rimanere vicepresidente di Amazon avrebbe significato approvare le azioni che disprezzavo”. E ha sottolineato che in quella manovra antisindacale “le vittime non erano entità astratte ma persone reali, come Courtney Bowden, Gerald Bryson, Maren Costa, Emily Cunningham, Bashir Mohammed e Chris Smalls”.

Bray ha persino voluto rimarcare una tutt’altro che vaga connotazione razzista evidenziando che “Sono sicuro che è una coincidenza che ognuno di loro sia una persona di colore, una donna o entrambi. Giusto?”.

Il post di questo alto dirigente deve far riflettere.

Si potrebbe poi aprire pure il fronte del rapporto tra Amazon e singoli venditori costretti a riconoscere provvigioni stellari alla piattaforma che espone la loro merce.

Ci fermiamo qua, ma una raccomandazione affettuosa non può mancare.

La prossima volta che si decide di fare un acquisto si tenga conto delle parole di Tim Bray e si verifichi se lo stesso prodotto è venduto anche altrove. Fatelo per le tante “Emily” e “Maren” dei mille depositi in giro per il mondo e magari nemmeno tanto lontano da noi.

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Umberto Rapetto

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