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PER LO “SMART WORKING” SERVONO “SMART COMPANIES”

di Umberto Rapetto
10/03/2020
in EDITORIALI
CORONAVIRUS: CON IL CALCOLATORE DI CARTA IGIENICA PUOI CONOSCERE L’AUTONOMIA DEL TUO BAGNO
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Un articolo di giornale, poco importa se stampato su un pezzo di carta o disegnato dai pixel dello schermo di un dispositivo elettronico, può essere una opportunità di riflessione, aiutare a cambiare idea, indurre a rivedere certe posizioni che a prima vista si prospettavano granitiche e immodificabili.

Non succede solo nei film, ma capita anche nel mondo reale. E’ la forza del dialogo e del confronto che lo scrivere riesce a dissotterrare grazie alla possibilità di leggere, rileggere, interpretare, capire. E’ la dimostrazione che il muro che ci divide dagli altri nasconde sempre una porta che offre una via di uscita per qualunque situazione.

Sabato mattina un “pezzo” firmato dall’avvocato Sabina Bulgarelli aveva richiamato l’attenzione sul difficile equilibrio tra datore di lavoro e dipendenti, precaria stabilità resa ancor più zoppa dall’emergenza che in questi giorni ha sradicato abitudini e convenzioni modificando la vita personale e delle organizzazioni. Veniva fatto un caso specifico per innescare la discussione sulle modalità di applicazione di una norma – quella dello “smart working” – che ha trovato impreparate sia le aziende sia i lavoratori.

La realtà in questione – “Invitalia”, l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, di proprietà del Ministero dell’Economia che aveva posto una serie di vincoli per consentire l’accesso alla modalità di prestazione del proprio lavoro da casa – ha ripreso in considerazione il provvedimento originariamente emanato e con grande serietà ha riformulato le condizioni. Non un passo indietro ma forse la dimostrazione (mi auguro che sia “contagiosa”) che le scelte possono essere modificate e perfezionate, superando le difficoltà che un processo decisionale affrettato dall’urgenza di trovare una soluzione può determinare.

Sul tema ho scritto anch’io sabato su Il Fatto Quotidiano, dove ho avuto la possibilità di illustrare la ridotta “maturità” delle nostre imprese e ancor più degli enti pubblici sul fronte del cosiddetto “lavoro agile”. A comprova delle mie caustiche (ma più che giustificate) descrizioni della situazione, ho avuto modo di scoprire le più strampalate applicazioni del “telelavoro” persino in contesti ordinariamente considerati esemplari per efficienza e modernità.

Un caso mi ha sinceramente colpito. A dispetto delle tradizioni, è il caso di svelare sia il peccato sia – almeno in parte – il peccatore.

Una enorme entità editoriale nazionale ha opportunamente deciso di applicare lo “smart working”. Dopo aver creato in ambito aziendale una “task force”, ha dato delega alle singole articolazioni di procedere alla selezione del personale da includere nelle aliquote di “lavoratori a distanza” e al loro immediato impiego “da casa”.

Veniamo al “peccato”, secondo logica religiosa da considerarsi “mortale”. Tra i “prescelti” ci sono persone che non hanno un computer abilitato ad accedere alla Intranet e alle applicazioni normalmente adoperate per lo svolgimento delle rispettive mansioni. Non bastasse, visto che il provvedimento è immediato e le porte dei palazzi non possono essere varcati dagli “smart workers”, non è possibile dotare gli interessati di pc o tablet adeguatamente configurati. Ma, d’altronde, quei dispositivi elettronici non ci sono e quindi il problema non si pone. Nessuno, nemmeno all’insorgere della catastrofica contingenza, ha pensato mai di provvedere all’acquisizione delle dotazioni che si sarebbero rese necessarie.

Qualche emulo di Cristoforo Colombo ha pensato di palesare il proprio uovo, immaginando di autorizzare sic et simpliciter l’accesso alla rete aziendale con “arnesi” di proprietà del lavoratore. A parte le considerazioni di ordine sindacale (perché mai, ad esempio, il lavoratore deve avere uno strumento personale per fare il suo mestiere?), peccato che quel computer o quel dispositivo mobile – certamente “non sicuri” rispetto qualsivoglia “policy” o standard – possa tramutarsi in un Cavallo di Troia e veicolare nel sistema informatico normalmente protetto (o almeno si spera) ogni sorta di codice o istruzione maligna. Il rischio di compromissione della rete, degli archivi e delle applicazioni non è trascurabile e non basta un’alzata di spalle per superare l’impasse.

Lavarsi bene le mani, forse è bene ricordarlo a certi manager, evita il coronavirus ma non le infezioni informatiche che possono far ammalare l’azienda.

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Umberto Rapetto

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