Se non siete capaci di rispettare le leggi (e voi stessi) e pensate di poter fare come meglio credete, non gioite se nessuna pattuglia vi ha fermato, identificato e chiesto ragione di quello che state facendo in città.
Ci sono troppe telecamere in giro e nonostante la mascherina (che nemmeno tutti indossano) la vostra persona viene costantemente immortalata con tanto di posizione, data e orario.
Se la situazione non migliora, non è escluso che dallo spiegamento di poliziotti ora e di militari un domani si passi ad un controllo orwelliano del territorio.
Non sarà un passaggio automatico, ma potrebbe accadere se qualcuno dei “decision makers” (quelli che – come “l’uomo Del Monte” – possono dire “sì”) ha visto quel che è capitato a Nuova Delhi in questi giorni.
Le forze dell’ordine indiane, infatti, hanno utilizzato sistemi di identificazione facciale per identificare oltre mille e cento persone che avrebbero partecipato ai disordini che hanno messo a ferro e fuoco la parte nordorientale della capitale.
La soluzione tecnologica è stata principalmente (non dimentichiamo questo avverbio) alimentata dalle fotografie che le autorità governative hanno acquisito per il rilascio dei documenti di identità e delle patenti di guida.
E “non principalmente” il sistema che ha fatto mai?
“Elementare” avrebbe detto Sherlock Holmes. “Fin troppo ovvio” si lascerebbe scappare chiunque abbia la consapevolezza dell’uso dissennato che ciascuno di noi fa della propria immagine nell’era dei “selfie” e dei “post”.
Nelle relazioni tecniche che hanno illustrato l’operato della polizia indiana si legge l’espressione “among other databases”, che indica l’aver agito frugando “in mezzo ad altri archivi elettronici”.
Se vogliamo tradurre più praticamente quell’ “other databases” non dobbiamo pensare a veri e propri schedari, ma piuttosto a quell’insieme – non poi così disaggregato – di fotografie e dati personali che spontaneamente gli iscritti ai social network riversano sulle pagine dei rispettivi profili.
La comparazione dei volti dei normali “scatti” nella vita quotidiana con le riprese dei sistemi di videosorveglianza disseminati in ambito urbano – grazie a potentissimi software in grado di rilevare elementi identificativi e a strumenti di elaborazione con velocità da brivido – ha permesso di individuare chi aveva tenuto condotte ritenute reprensibili dall’ordinamento locale.
Le dichiarazioni trionfanti di Amit Shah non rassicurano chi ritiene inviolabili i diritti civili e tra questi quello alla riservatezza dei dati personali. Il Ministro dell’Interno indiano, siccome il fermento è legato ad una legge che emargina i musulmani, ha spiegato che il software non fa distinzioni di fede religiosa o di classe sociale desumibile dagli abiti indossati. Verrebbe da dire che i programmi informatici adoperati “non guardano in faccia nessuno”, ma mai affermazione sarebbe fuori luogo. La soluzione tecnologica impiegata esamina il volto in ogni suo punto, ne concatena i rispettivi valori, ne estrae una sorta di DNA grafico, ne produce un primo “codice” idoneo ai successivi raffronti…
Non è agevole liquidare in poche righe (e per di più commestibili) il funzionamento di certe sofisticatissime tecnologie, ma è facile comprendere la profondità di azione di determinati strumenti.
Quel che spaventa è l’approssimazione che comunque caratterizza ancora certi sistemi di riconoscimento facciale, che potrebbe portare all’incriminazione di soggetti estranei ai comportamenti ritenuti delittuosi o comunque in violazione di un qualsiasi provvedimento normativo. La Polizia di Delhi ha utilizzato per prima lo strumento identificativo in questione per rintracciare bambini scomparsi e i risultati nel 2019 sembra non siano stati entusiasmanti: il sistema avrebbe avuto un grado di precisione pari all’1% e in alcuni casi avrebbe fallito persino la distinzione tra maschietti e femminucce.
Dalle nostre parti non ci sono ancora applicazioni tecnologiche in questa direzione, ma il rappresentare l’esperienza indiana mi auguro che serva come spunto di riflessione a chi magari sta già elucubrando l’implementazione di certi controlli.
Non mancano certo le videoregistrazioni fatte ad ogni angolo di strada da banche, esercizi commerciali e autorità comunali per i più diversi scopi. Mi auguro piuttosto che la gente resti a casa a prescindere dalla spettrale ipotesi di “rastrellamenti” digitali. Il buon senso può garantire migliori risultati di qualsivoglia giro di vite.