Grand hotel abisso (2017), dello scrittore e giornalista Stuart Jeffries (1962 Inghilterra), è la biografia della Scuola di Francoforte: la scuola sociologico-filosofica di orientamento neomarxista sorta nel 1923 presso l’Istituto per la Ricerca Sociale dell’Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte.
Fu il filosofo ungherese György Lukács (Budapest, 1885 – 1971) a chiamare “Grand Hotel Abisso” la scuola filosofica fondata da Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Max Horkheimer e Jürgen Habermas, insieme a tanti altri: Walter Benjamin, Erich Fromm, Friedrich Pollock, Franz Neumann. La definizione gli fu suggerita dal tentativo perseguito da questi “maestri del pensiero critico” di rifondare il marxismo. Tentativo sfociato, secondo Lukács, in uno “sterile anarchismo parolaio”, poco efficace a cambiare le sorti del mondo.
Jeffries, sullo sfondo delle vicende personali di queste figure rivoluzionarie del mondo intellettuale europeo, fa scorrere alcuni dei principali eventi che hanno condizionato il pensiero filosofico del novecento: la Repubblica di Weimar, il nazismo, la seconda guerra mondiale, il genocidio degli ebrei, la vita degli esuli in America, lo stalinismo, i partiti comunisti europei, la guerra fredda, le contestazioni del ‘68, gli anni ottanta, senza tralasciare il pensiero postmoderno.
Dalla narrazione emerge l’estrema libertà intellettuale con cui la Scuola di Francoforte ha messo in discussione la civiltà occidentale, affrontando tematiche politiche, filosofiche ed estetiche, fino alla psicanalisi e alla letteratura.
La critica alla società capitalistica – e a Max Weber che ne aveva individuato le radici protestanti – divenne presto un’implacabile censura del proletariato, reo di aver abbandonato il ruolo di contrapposizione alla borghesia, per aspirare a farsi anch’esso borghese, visto lo scarso interesse per la rivoluzione. Oggi a Roma diremmo che il proletariato ha abbandonato la lotta di classe “per entrare nella ZTL”.
Nelle loro analisi, i francofortesi, sostituirono la lotta sociale con quella generazionale basata sulla contestazione dei vincoli posti dalla famiglia, dalla religione e da qualsiasi autorità, fino ad arrivare all’omicidio del Padre, quello celeste e quello biologico, attuato col bisturi offerto da Freud.
La critica ad ogni genere di autorità divenne occasione per abbattere i tradizionali simboli della collettività (forme estetiche e forme di governo) e, nel contempo, pose le basi per gli attuali estremismi: l’individualismo tecnologico e il suo contrario, il totalitarismo.
Qui va riconosciuta l’intuizione della Scuola di Francoforte: l’aver saputo intravvedere tra le ceneri del comunismo “una società decomposta e avvizzita che sopravvive a sé stessa per trascinarci in inediti totalitarismi mascherati da democrazie”.
Nel presente, gli effetti di tale decomposizione non mancano: la progressiva sottrazione di sovranità ai popoli, la parallela ininfluenza dei Parlamenti nelle scelte dei decisori, l’astensionismo diffuso in ogni classe sociale, il potere sovranazionale acquisito da singoli imprenditori detentori di tecnologie avanzate, l’imposizione di scelte scellerate a vantaggio del riarmo e a svantaggio delle politiche sociali, l’assenza di ogni forma di opposizione, ecc. ecc.
In quest’ultimo fenomeno – l’assenza di ogni forma di opposizione – Marcuse intravide “l’impostura delle società democratiche”. Scrive, infatti, nell’incipit de L’uomo a una dimensione (1964): “una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico”.
Tutto ciò grazie a una opposizione che fintamente contende il potere o perché resa inoffensiva o perché impantanata in uno “sterile anarchismo parolaio”, lo stesso anarchismo parolaio rinfacciato da Jeffries ai filosofi di Francoforte.
Una opposizione che ha ceduto le proprie funzionalità intellettuali, e non solo, ai grandi assetti finanziari internazionali e ora, come un aspirante suicida, resta immobile con lo sguardo sull’abisso della ragione.