Nell’era dell’iper informazione e dell’abuso di ogni forma di privacy, l’idea che Papa Francesco abbia deciso di lasciare memoria di sé soltanto nel proprio nome in latino, fa riflettere.
Pensando alla semplicità della lastra che sigilla la sua sepoltura a Santa Maria Maggiore, viene da domandarsi se i pellegrini del tremila dopo Cristo sapranno riconoscere in quel nome, Franciscus, inciso in grandi lettere capitali, la tomba del 266° pontefice della Chiesa di Roma. Non è soltanto un fatto di povertà francescana: la scelta di papa Francesco mette alla prova la capacità di essere, in futuro, identificato.
Nell’ambito della ricerca storico-archeologica, il rapporto tra fonti, memoria e identità pone da sempre spunti interessanti. In tal caso la riflessione è sul rapporto tra epigrafi funerarie e riconoscibilità del defunto, specie quando di alto rango. Papa Francesco ha scelto una lastra tombale in pietra ligure, senza decorazioni e senza precisare l’anno di nascita e di morte. La scritta ricorda solo il suo nome di Papa, in latino, senza nemmeno la menzione della sua carica.
La scritta Franciscus è, a tutti gli effetti, un’epigrafe funeraria, che, così concepita, forse ingannerebbe gli esperti del futuro, perché è muta. La sua semplicità contrasta con l’eminenza del defunto e, ancor di più, con sepolture meno umili di precedenti pontefici, ad esempio la facciata esuberante della tomba di Paolo V Borghese, nella cappella Paolina, dove rilievi istoriati, sculture e lunghe iscrizioni ne precisano i particolari biografici.
E tale atteggiamento ci rimanda a quel comportamento tipicamente romano antico dove, per contrastare la fobia dell’oblio, fu sviluppato un complesso sistema architettonico ed epigrafico per lasciare una memoria tangibile e intelligibile di sé ai posteri. Cogliamo allora l’occasione di ricordare due sepolture di alto rango conservate a Roma, pensando a quanto sia ancora oggi possibile identificarne i personaggi, sulla base delle iscrizioni scolpite, e di parlarne con cognizione.
La prima è la tomba degli Scipioni, situata al primo miglio della via Appia. La monumentalità architettonica è ancora ben percepibile. Era una tomba rupestre, scavata nel tufo, introdotta da una colorata facciata dipinta, adorna di statue. Entrando, si scorge l’interno di una grotta, con il sarcofago di Scipione Barbato, che fu console nel 298 a.C., in posizione predominante sul fondo. Sul sarcofago si nota un’iscrizione dipinta in rosso, che dice “L(ucius) CORNELIVS CN(ei) F(ilius) SCIPIO”, cioè Lucio Cornelio Scipione, figlio di Cneo. Il sarcofago è intagliato da metope e triglifi, alla greca, e sotto al fregio è incisa una lunga iscrizione, dove le prime righe sono state erase.
Peccato non sia autentico. Il sarcofago, infatti, fu estratto dal sepolcro all’indomani della scoperta avvenuta nel 1780 e tradotto in Vaticano, così, entro il 1929, per l’inaugurazione dell’area archeologica rapidamente sterrata e restituita al pubblico dal Governatorato fascista, fu rimpiazzato da una copia. E c’è anche un errore: le incisioni settecentesche ,infatti, riportano una versione leggermente diversa del nome dipinto in rosso: ‘Cornelius’ in realtà è ‘Cornelios’, con la ‘o’, trattandosi di un latino ancora repubblicano. Ma a parte questo dettaglio, il nome ricorda una persona, non molto di più. Ma la decorazione grecizzante e l’elogium aggiunto sulla fronte del sarcofago, aiutano a contestualizzare il personaggio.
La Piramide Cestia, d’altro canto, non ingannerebbe nessuno neppure tra altri duemila anni. Caio Cestio, oltre a manifestare apertamente la propria passione per la moda egittizzante dilagata a Roma dai tempi di Cesare e Cleopatra, ha accuratamente descritto se stesso e le proprie volontà testamentarie, poi incise sulla facciata del sepolcro. Figlio di Lucio, era stato membro del collegio degli Epuloni, pretore e tribuno della plebe. L’iscrizione dice poi che, secondo il testamento, la tomba doveva essere completata entro 330 giorni dall’inizio dei lavori.
Tornando alla spoglia sepoltura di Papa Francesco, quel nome inciso a grandi lettere su una lastra in pietra ligure, senza altri indizi di sacralità, se non il luogo, che però non è San Pietro, quale identità suggerirà ai pellegrini del futuro, in assenza di segni o immagini a contestualizzarla? D’altro canto, l’etimologia del nome racconterà di un uomo “franco”, di un “uomo libero”, in memoria dei Franchi, il popolo libero per antonomasia, e di Francesco D’Assisi, che viaggiò in Francia quando era ancora un mercante, meritandosi il soprannome ‘Franciscus’, per poi affrancarsi anche dai gravami paterni in nome di Madonna Povertà.
E, forse, sarà solo tra mille anni o più che il desiderio di Papa Francesco, di essere ricordato come un semplice pastore e discepolo di Dio, si avvererà.