Quali sarebbero i vantaggi di iscriversi all’università per seguire un percorso di formazione nelle Scienze Umanistiche? Apparentemente, molti. Attraverso una serie di curricula che puntano ad offrire una vasta preparazione, di base e specifica, nell’ambio della storia, della letteratura, della storia dell’arte, dell’archeologia, dall’antichità al contemporaneo, dall’occidente all’oriente e con vari livelli di approfondimento teorico e tecnico, gli studenti afferenti agli atenei italiani sarebbero in grado di dominare perfettamente le scienze umanistiche, tanto nella teoria quanto nella pratica. Un viaggio nel tempo che appassiona, impegna, perfeziona la comprensione dei fenomeni culturali e ne delinea la visione, acuta e consapevole. E che in Italia avrebbe non pochi ambiti di applicazione.
Di tale vantaggio si assume piena coscienza nel momento in cui ci si confronta – specie sul campo – con colleghi di altri atenei europei, dove il contatto con quel mondo fatto di antichità e arte è, inevitabilmente, meno costante e più filtrato. E questo ha, indubbiamente, il suo peso. E d’altro canto, come ha detto il prof. Alessandro Barbero in una recente intervista, studiare la Storia (e, quindi, anche l’archeologia e l’arte) è decisamente meglio farlo che non farlo, perché alla domanda “ma come campi?” Si potrà sempre rispondere “campo consapevole”.
Sacrosanto. Ma la consapevolezza fino a che punto può tradursi in un lavoro appagante nel proprio campo di studi? Se si passa a constatare, infatti, quale sia il reale livello di impiego delle migliaia di laureati in discipline umanistiche ogni anno, si vedrà che in pochi, anzi, pochissimi, riescono a sfruttare le competenze acquisite restando nel proprio settore di formazione. Un rapporto Almalaurea riporta che nel 2023 ci sono stati 385.952 laureati: 55,1% laureati primo livello, di cui 29,4% in discipline umanistiche; 34,4% laureati magistrali biennali, di cui 30,7% in discipline umanistiche; 10,4% laureati a ciclo unico, di cui 43,5% in discipline umanistiche. Se tali numeri cogliessero nel vero, saremmo di fronte a un bel numero di potenziali umanisti da impiegare attivamente nei settori culturali.
Quanto tempo ci vuole per formarsi? Nel caso degli archeologi e degli storici dell’arte, per esempio, la trafila per ottenere il massimo grado di formazione prevede un ciclo quinquennale di laurea, la scuola di specializzazione (3 anni) e/o il dottorato (altri 3 anni) e, se proprio se ne hanno gli strumenti economici, uno o più master a pagamento.
Mediamente, quindi, per ottenere un curriculum pieno e completo sono necessari dai dieci ai quindici anni di formazione. E ci si aspetta che dopo tanto studiare ci siano migliaia di porte aperte all’orizzonte. È così? No.
La beffa del sistema è che i curricula e i percorsi formativi sembrano essere pensati solo ed esclusivamente per chi intenda proseguire nella carriera accademica, diventando cioè prima assegnista di ricerca a tempo fino a 6 anni (anche senza il dottorato), poi ricercatore a tempo fino a 3 anni (con il dottorato), poi docente, il tutto tramite concorso. Ma a ben vedere, la percentuale di chi davvero riesce a ottenere un posto a tempo indeterminato nell’Università italiana è bassissima e l’intera giostra dei concorsi – faccenda tipicamente nostrana – è notoriamente scandalosa.
Veniamo allora ai concorsi esterni all’Accademia. Per diventare Guida Turistica, bisogna ripartire da zero, con un concorso a quattro prove dove gli umanisti saranno nuovamente esaminati su argomenti che hanno già ampiamente trattato negli anni della formazione, e dovranno farlo su uno striminzito bignami nemmeno troppo esatto. E dovranno mettersi in fila assieme a uno stuolo di diplomati e laureati di altri settori, come se divulgare la cultura sia un mestiere adatto a chiunque, senza alcuna distinzione nella formazione specifica. Ma di questo ne abbiamo già parlato.
Nel caso, invece, si voglia tentare la strada della docenza nella Scuola dell’obbligo, si dovranno sostenere ulteriori esami di indirizzo, si dovranno letteralmente “comprare” crediti formativi aggiuntivi, come anche procurarsi certificati di lingua livello C1 – che neppure i madrelingua normalmente riescono ad ottenere- per salire in graduatoria. Il tutto, dietro un esborso costante di migliaia di euro per acquisire nozioni e metodologie che i dieci anni di formazione non hanno mai, neppure per sbaglio, assicurato.
Se, poi, si vuole tentare di entrare nelle fila del Ministero della Cultura, o magari provare a concorrere per un posto di direttore di Museo Civico, si dovrà mettere da parte quasi tutto quello che si è studiato negli anni per fare posto a mattoni come il Diritto Amministrativo, il Tuel, il Codice dei Beni Culturali, e molte altre materie che, di nuovo, mai neppure distrattamente il Miur ha pensato di includere nei programmi formativi.
E così anche un concorso come quello recentemente indetto per il posto di Direttore di Museo presso il Museo Civico di Fara Sabina (Rieti) è finito in malora. Indetto una prima volta alla fine del 2024, è stato fatto saltare dalla Associazione Nazionale Archeologi perché mancavano i requisiti professionali, vale a dire la qualifica di Archeologo di I fascia (con Specializzazione o Dottorato) e un anno di servizio presso la PA.
Indetto il nuovo bando (scadenza inizio marzo 2025), il concorso è stato espletato in circa due mesi. Il ruolo da coprire: “posto a tempo indeterminato e parziale (12 ore) di direttore Museo Civico Archeologico della Sabina tiberina – area funzionari ed elevata qualificazione (ex cat. D)”, tradotto: circa 500 euro al mese, forse anche meno.
A quanto si apprende dai candidati, la prova scritta è consistita in tre domande di pura normativa amministrativa, senza nessun accenno a materie quali “Conoscenze specialistiche dell’archeologia, Conoscenza del patrimonio culturale locale del Comune di Fara in Sabina, Conoscenze di museologia e museografia” pure specificate nel bando. Risultato: nessun vincitore.
E’ evidente che la lacunosità in fatto di Diritto amministrativo da parte degli archeologi candidati è radicata nella loro formazione ed è illusorio pensare che appicciarsi a memoria in un mese nozioni per cui servirebbe un intero corso di studi per comprendere appieno, è tipico dell’universo ministeriale. Metterle in pratica, poi, è un altro paio di maniche. E non è davvero il caso di spostare il problema sui candidati, perché la falla è nel sistema formativo.
E allora perché mai imporre la categoria di archeologi di I fascia quando la figura che si cerca è puramente amministrativa? E poi: perché ci ostiniamo a costruire ruoli apicali in ottica burocratica, senza mai optare per una figura che sia di spessore culturale, che abbia una visione, appunto, culturale, e non solo manageriale?
Ai futuri laureati in Scienze Umanistiche l’ardua sentenza, sperando che sappiano pretendere una maggiore qualificazione professionale fin dagli anni della formazione accademica. Poi, per tutto il resto, c’è Ales S.p.a.