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COLOSSEO GLOBALE

Valeria Di Cola di Valeria Di Cola
09/06/2025
in ARCHEOLOGIA
COLOSSEO GLOBALE
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TE LO LEGGO IO

Il concetto di globalità della cultura è entrato da circa due decenni nel dibattito scientifico nostrano, prima nell’ambito archeologico, attraverso una serie di progetti di ricerca nazionali sull’archeologia globale, e più di recente anche sul versante storico-artistico, basti pensare alla mostra intitolata “Barocco Globale”.

Al di là delle imperanti strategie commerciali, una delle domande a cui è sempre più difficile rispondere è: che cosa si intende per globale? Sono i temi, le prospettive a essere globali? Gli strumenti, i metodi? Oppure sono le aree geografiche coperte a rendere globali?

Pensando all’Italia è fin troppo scontato constatare come agli occhi della gran parte degli abitanti del pianeta sia il Colosseo il simbolo di Roma e della civiltà romana antica. Sarebbe bello se potesse essere anche il simbolo della civiltà romana contemporanea, ma sembra, invece, che non sia questo l’obiettivo dell’attuale gestione dell’edificio.

Si rilevano, infatti, alcuni episodi che lasciano perplessi e amareggiati e che proveremo a mettere in fila per ricavarne una visione unitaria. Il primo fatto, noto a tutti, è che al Colosseo è stato assegnato il ruolo di “miniera”, tanto per il Ministero della Cultura, quanto per il Concessionario dei servizi aggiuntivi, per cui, stante la sua mole, è divenuto l’ombelico del turismo nazionale e internazionale (si veda il contributo di Valentina Porcheddu “Beni Culturali, oltre la mala valorizzazione” – Il Manifesto, 11.5.2025). 

Tutti, ma proprio tutti vanno al Colosseo. Con “tutti” si intende coloro che riescono ad acquistare un biglietto con larghissimo anticipo e preferibilmente all’interno di pacchetti turistici organizzati e pensati per un pubblico non locale. I locali, oltre a poter godere degli avanzi lasciati dalle grandi agenzie – un biglietto qua, uno là in orari non sempre ottimali – possono optare per la Membership, una carta annuale che costa 50 euro (per adulti sopra i 31 anni, con altre soluzioni per diverse fasce di età) e consente accessi illimitati una volta a settimana con prenotazione obbligatoria su un canale dedicato, come si legge sul sito web del ParCo. 

La Membership, però, come il biglietto ordinario, non consente l’accesso ai sotterranei, il luogo più spettacolare e intrigante dell’anfiteatro, che è, invece, visitabile solo accompagnati e in gruppi contingentati per motivi riconducibili alla fragilità delle strutture, alla limitata larghezza dei corridoi e alle cautele per l’incolumità dei visitatori che un luogo sotterraneo impone. Certo, non deve essere una bella esperienza perdersi nei sotterranei del Colosseo. D’altra parte, l’effetto è quello delle visite in batteria, per consentire – si dice – al maggior numero di visitatori, provvisti di biglietto adeguato, di poter accedere al luogo.

Di fatto, quindi, la fruizione dell’edificio segue due canali. Il canale ordinario (e ci riferiamo in particolare ai visitatori autonomi, senza un gruppo con guida), prevede la visita libera al piano terra e al primo piano, con un itinerario obbligato che, al momento in cui scriviamo, dallo Sperone Valadier a ovest, si muove nell’ambulacro esterno nord, salendo al piano superiore all’altezza del limite est verso lo Sperone Stern, usando un’unica scala; camminando lungo il corridoio, si procede per metà della sua lunghezza per poi obbligatoriamente entrare nell’ambulacro interno, oggi completamente scoperto, per poi proseguire tutto intorno all’area dell’arena con diversi affacci panoramici. 

Giunti di nuovo alla terrazza Valadier, un’ultima tappa verso il tempio di Venere e Roma è d’obbligo, prima di scendere tutti per l’unica scala possibile, concludendo il giro dalla porta Triumphalis a ovest, fino all’estremità rivolta verso il Celio, a metà dell’anello meridionale.

Detta così, sembra l’esperienza più completa e appagante del mondo, ma a farla, sotto la pioggia, o con il sole a 40 gradi, senza coperture o vie di fuga, non è esattamente emozionante, anzi. La sensazione è quella di essere un gregge che si muove lentamente nella medesima direzione, senza potersi fermare in punti non canonici, perché incombono folti gruppi al seguito delle loro guide con i tempi stretti e si viene travolti.

L’altro canale di fruizione è quello per i fortunati che riescono ad aggiudicarsi un biglietto per accedere ai sotterranei dove, con la nuova direzione, si sta potenziando il percorso espositivo. Una serie di materiali archeologici e di animazioni tridimensionali hanno arricchito la precedente esposizione che prevedeva la ricostruzione dei montacarichi in legno, oltre al fatto che il percorso su passerelle è stato ampliato.

Agli inizi di maggio, senza preavviso, chi ha visitato il Colosseo, o chi doveva tenerci una lezione di archeologia con la propria classe, non ha più trovato i reperti fino a quel momento allestiti nelle teche al piano superiore, insieme agli arredi marmorei, alle ricostruzione dei montacarichi nelle loro due fasi edilizie e alle lastre dei sedili con incisi graffiti di animali, cacciatori e gladiatori. Le teche contenevano i reperti trovati a partire dagli anni 90 nei condotti fognari dell’anfiteatro: ossi di animali, aghi crinali per acconciature femminili, resti di pasto, di stoviglie e dadi da gioco: unici resti delle attività che si svolgevano nel monumento tra l’età flavia e la tarda antichità, unici indizi dei tanto celebrati spettacoli con animali allestiti sull’arena.

Agli inizi di maggio, quei reperti erano spariti. Non un cartello, non un avviso. Negli occhi delle guide e dei professionisti sgomento e sorpresa. Possibile che non meritassimo di essere avvisati del destino di quei pezzi ai quali eravamo, in fin dei conti, anche affezionati? Ma a parte l’affetto: quei pezzi servivano a spiegare la vita e la morte nel Colosseo, a comprendere le principali fasi costruttive dei sotterranei, le cui tracce sono altrimenti incomprensibili agli occhi di chi non sia un esperto di archeologia dell’architettura.

In seguito, scompaiono anche le lastre con animali e cacciatori graffiti, questa volta sostituite da un foglietto pastificato che ne riporta il contenuto, in taluni casi accompagnato dalla nota che il “pezzo è esposto negli Ipogei, nell’ambito della mostra Gladiatori nell’arena”. Le voci cominciano a girare e si sussurra che lo smantellamento delle teche (ripetiamo, con gli unici reperti archeologici in fase con la funzione primaria dell’edificio) sia dovuto allo spostamento nei sotterranei di tutto il corredo di reperti. Ad una ricerca per parola chiave sul sito web del ParCo risulta l’avviso di una mostra effettivamente dedicata ai Gladiatori, che riporta: “l’evento si compone di una installazione multimediale permanente e di una esposizione temporanea visitabile dal 21 luglio 2023 al 10 febbraio 2024 all’interno dei sotterranei del Colosseo”.

Ma le voci emerse per via dello smantellamento progressivo delle teche, che la passata direzione aveva definito “permanente” a beneficio di tutti i visitatori ordinari del Colosseo, si sono poi concretizzate, ad esempio, in una lamentela da parte di una fruitrice che commentava su Facebook, sul profilo del ParCo, il disappunto sull’evidenza dei fatti. Il Parco del Colosseo, che non sembra – almeno in situ o sul sito web – aver pensato ad avvisare i visitatori del cambiamento o a scusarsi per il disagio arrecato, risponde al messaggio rimandando a un precedente post, sempre su Facebook, datato 29 maggio, intitolato “lavori in corso: riallestire il Colosseo”, dove si spiega sommariamente che si sta lavorando al “ripensamento del racconto del Colosseo che prevede nuovi spazi allestitivi distribuiti lungo il percorso di visita, nei diversi livelli del monumento”. 

Si deduce, così, che sta nascendo un “nuovo museo degli ipogei”, che suona permanente rispetto al periodo di esposizione temporanea dei pezzi nella mostra sopra citata ed è evidente che sarà potenziato con gran parte dei reperti prima sistemati nel percorso ordinario. Il messaggio del ParCo nei confronti della fruitrice prosegue poi con un invito “come già fatto più volte, a voler per favore evitare polemiche che hanno l’unico risultato di avvelenare inutilmente le conversazioni online”.

Eppure, c’è qualcosa di stonato in questa comunicazione. La prima nota stonata è la mancanza di riguardo nei confronti dei visitatori, dei contribuenti e di chi, ogni giorno, frequenta l’edificio, non certo al fresco degli uffici ma sotto al sole o alle intemperie, sperimentando in prima persona percorsi e strategie di fruizione mai discusse con i diretti interessati. Dove si è visto mai? Questo è il punto. La verità è che il Colosseo non è di tutti, l’archeologia non è davvero pubblica.

La seconda nota stonata è il canale di informazione. Da quando Facebook è un canale ufficiale? Domanda, forse, ingenua. Tuttavia, esiste un buon numero di persone che non ha dei profili social per legittima scelta e, seppure li ha, non scrolla ossessivamente lo schermo andando a caccia degli eventuali messaggi di un Parco archeologico nazionale di portata internazionale. Ecco, quindi, che è molto facile perdersi il “precedente post” nel quale si era data la notizia di un piano scientifico di allestimento, mentre manca del tutto il sistematico aggiornamento del sito web, che dovrebbe ancora oggi essere lo strumento che garantisca ai fruitori la possibilità di essere informati, specie se provenienti dall’altra parte del mondo.

La terza nota stonata, la peggiore, è l’arroganza della comunicazione. Da quando in qua il pubblico pagante e, nel nostro caso, contribuente, deve essere redarguito da una pubblica Istituzione, a fronte di una legittima osservazione? Da quando il singolo funzionario pubblico coincide con il monumento? Non dovrebbe trattarsi di intermediari, più che di padroni di casa? E da quando, poi, un utente – perché questo siamo – non può manifestare il proprio dissenso rispetto agli effetti di un programma che, per quanto scientifico, si dimentica di avere cura dei diretti interessati, cioè noi pubblico?

È qui che la tanto agognata globalità non vede la luce, lasciando spazio a una gestione incurante della controparte vitale dell’esistenza stessa del Colosseo e delle sue risorse economiche: i contribuenti e i turisti di tutto il mondo.

Ci si augura, allora, che insieme al nuovo progetto scientifico, si ripensi il criterio di accesso ai sotterranei, per scongiurare un uso escludente della testimonianza storica di per sé universale, che al momento sembra sia destinata ai pochi fortunati che potranno accaparrarsi un biglietto, verosimilmente a prezzo maggiorato da qualche agenzia estera.

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Valeria Di Cola

Valeria Di Cola

Valeria Di Cola (1982) è Dottore di ricerca in archeologia e divulgatrice culturale. Specialista in Archeologia dell’architettura, è libera ricercatrice in metodologie sperimentali per l’indagine di stratificazioni complesse e Archeologia Pubblica. È autrice di numerosi articoli e di due monografie scientifiche su monumenti di età romana: le Terme del Nuotatore di Ostia antica (L’Erma di Bretschneider 2013) e l’Arco di Druso sulla via Appia (Premio “Renzo Ceglie” Edipuglia 2019). Tra le sue attività di divulgazione ci sono il progetto di archeologia pubblica “Appia Primo Miglio”, dedicato al tratto iniziale della via Appia a Roma, e “Muri per tutti”, dedicato alla diffusione dell’archeologia romana attraverso contenuti social (Instagram, Facebook, Youtube, Web) e sopralluoghi sul campo con la community. Dal 2017 è presidente della Associazione Culturale “Gli Archeonauti”, radicati nell’area litoranea di Roma e impegnata nella promozione culturale del patrimonio storico e archeologico attraverso la conoscenza diretta. Dal 2021, inoltre, collabora assiduamente con Parco Archeologico di Ostia antica in qualità di consulente esperta di archeologia pubblica. Attualmente è Professor of History and Classics presso la fondazione IES Abroad Rome e membro ICOM dal 2023.

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