Abituato ad imbracciare la tastiera quasi fosse un kalashnikov e a fare fuoco sui tanti incompetenti che – impuniti – continuano a mietere insuccessi, mi sembra quasi irreale trovare l’occasione per parlare bene di qualcuno.
E’ una combinazione fortuita, sicuramente, proprio come la casuale scoperta di un riconoscimento che il Bis-Presidente ha voluto tributare ad un personaggio della mitologia tecnologica nazionale.
Quando, con grande ritardo, ho saputo del conferimento del titolo di Cavaliere di Gran Croce (il massimo ed esclusivo “grado” dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana) a Gian Paolo Di Raimondo mi è scappato un sorriso, sincero, dal profondo del cuore e mi è venuta voglia di raccontare “chi è” alla gente che magari non lo conosce.
Chi è, non chi era. Un privilegio – questo – che tocca in sorte a pochi, che spetta solo a chi merita rispetto ed ammirazione anche quando non ricopre più un temuto ruolo istituzionale o un allettante incarico manageriale foriero di contratti e opportunità per lo stuolo degli immancabili farisei.
Gian Paolo, che ho la fortuna di conoscere da trentacinque anni, è il più equilibrato dosatore di cuore e cervello, i due ingredienti fondamentali del nostro vivere quotidiano anche nel contesto dell’innovazione hi-tech. Due elementi rari a trovarsi, a dispetto dell’estrema necessità di poterne disporre.
Nel desertico orizzonte in cui storicamente sguazzano il calcolo di convenienza (ehi, non parlo di ottimizzazione delle risorse ma di bieco cinismo) e la furbizia (quella che a differenza dell’intelligenza non ha bisogno della sua versione “artificiale”), il buon GPDR – da non confondere con il Regolamento UE sulla privacy – ha saputo non farsi contaminare. E’ riuscito a non farsi infettare dalla pandemia del business a tutti i costi, dal contagio dell’approfittare dell’inossidabile “tanto qualcuno paga”, dalla peste del vendere quel che non serve (i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti) e dal morbo di fregare serenamente il committente pubblico poco capace di definire le esigenze della propria Amministrazione.
Manager di spicco in Olivetti, poi in Philips e quindi in Siemens, negli anni ottanta inizia la crociata della “system integration” creando uno dei primi Consorzi (il CISIT) che doveva “raddrizzare” le situazioni traballanti dei “patchwork” dell’automazione improvvisata e inconcludente. Dietro quel termine anglofono, poi divenuto usuale ad indicare il completamento e l’armonizzazione dei sistemi, si celava il suo desiderio di porre rimedio ai tanti e forse troppi errori di un processo di informatizzazione disordinato e privo del benché minimo disegno degli obiettivi da perseguire.
Da sempre i “fornitori” si sono preoccupati più di raggiungere i traguardi di fatturato e sforare i risultati prefissati nelle previsioni di esercizio, che di realizzare qualcosa davvero rispettoso delle esigenze di questo o quel Ministero e delle aspettative del cittadino. Gian Paolo invece ha sempre ritenuto ineludibile il provare comunque a rimediare alle incongruenze, a trovare cos’era stato dimenticato, ad individuare gli errori e scovare la soluzione più rapida ed economica.
Gian Paolo Di Raimondo, purtroppo, ha il terribile vizio di voler dare quello che manca.
Questo suo punto debole (imperdonabile in un mondo in cui non ci si guarda mai indietro o attorno) lo ha reso protagonista anche negli anni in cui non doveva gestire progetti o CdA, ma misurarsi – cosa che fanno in pochi – con la vita di tutti i giorni.
La generosità, che ha sempre azzoppato la sua managerialità, ha trovato sfogo in una miriade di iniziative. Dalla Caritas all’AVIS, dalle tante organizzazioni umanitarie alla Fondazione Italiana Promozione Trapianti d’Organo FIPTO, dall’assistenza a chi è bisognoso economicamente all’aiuto a chi si è ritrovato con un budget molto limitato in fatto di salute. Non solo il facile (anche se pochi lo fanno) mettere mano al portafogli, ma il donare quel che si ha dentro.
Il Presidente Ciampi lo aveva nominato “Maestro del lavoro” forse perché non esiste una medaglia per chi è maestro di vita. La “Gran Croce” del sommo cavalierato, riconosciutogli da Mattarella, è in realtà quella che con estrema umiltà si è sempre caricato sulla schiena – emulo del Cireneo ai piedi del Golgota – per aiutare chi era in difficoltà.