C’era una volta un social network che al suo ingresso esponeva la rassicurante dicitura “Iscriviti. E’ gratis e lo sarà sempre”…
Quella che sto per raccontare non è una fiaba, anche se molti hanno creduto per anni di avere libero accesso ad un lunapark virtuale in cui trovare presunte amicizie e perdere il proprio tempo senza dover mettere mano al portafogli.
Quell’accattivante insegna è sparita da tempo dall’anticamera di Facebook, ma pochi ci hanno fatto caso. Il tema, però, è tornato in auge in questi giorni innescando un certo disagio in chi ha temuto di dover pagare un biglietto o un abbonamento per continuare a frequentare la piattaforma digitale in questione.
La ridda di voci ha messo in allarme frotte di nullafacenti che vivono appollaiati sul proprio trespolo in quello che è stato il più ampio e frequentato giardino zoologico della storia. Mentre gli utenti “normali” non si sono crucciati più di tanto, le torme di chi aveva trovato una vetrina in cui innescare discussioni inutili, commentare l’operato di un politico o di un personaggio dello spettacolo, inveire per questa o quella ragione, protestare o prendersela con qualcuno, ha temuto il peggio.
L’annuncio di un “pedaggio” è correlato alla possibilità di fornire agi utilizzatori di Facebook una versione di quell’ambiente priva di inserzioni pubblicitarie e di altre sollecitazioni che rallentano la promenade nei viali virtuali o infastidiscono chi vuole svagarsi in santa pace.
In realtà Facebook non è mai stato gratis e chi se ne è servito ha speso più di quanto avrebbe mai pensato di sborsare per cose utili o di prima necessità. Se attribuiamo il benché minimo valore alla nostra riservatezza personale, non è impossibile comprendere quali vantaggi abbia potuto trarre il signor Zuckerberg dalla nostra adesione al suo “giochino”.
Tutti – più o meno consapevolmente – hanno accettato di versare un obolo virtuale che non intaccava immediatamente le rispettive disponibilità finanziarie ma che si traduceva in una demolizione della privacy e della propria libertà personale.
Informazioni identificative, foto e video, dichiarazioni e commenti, like ed espressioni di approvazione, iscrizione a gruppi, spostamenti e comportamenti (e così a seguire) hanno permesso a Facebook di schedare involontariamente chiunque si sia sentito a casa sulle sue pagine web. Gli archivi elettronici della holding Meta (che possiede anche Instagram e WhatsApp) sono appetibili tanto per chi voglia calibrare il proprio target commerciale quanto per chi abbia velleità elettorali o esigenze di controllo politico. Sicuramente non è mestiere di Meta vendere i segreti che ha in pancia ma il fatto che certe informazioni possano finire nelle mani sbagliate – come nel caso Cambridge Analytica – non rassicura.
Sarebbe meglio spendere due soldi ma aver certezza di non ritrovarsi catalogati per opinioni, convinzioni e abitudini, a rischio che qualcuno, hacker o bieco speculatore, ne possa trarre profitto o danneggiarci.