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QUEL CHE SAPPIAMO DEL NAUFRAGIO LO SI DEVE AL “GAT” DELLA GDF

di Umberto Rapetto
13/01/2022
in EDITORIALI
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Quella dannata notte ero all’Argentario e ho visto da vicino lo sbarco dei sopravvissuti, l’eroica azione dei soccorritori, l’affettuosa ospitalità della gente del posto.

Più o meno trentasei ore dopo il disastro ricevo una telefonata in ufficio dal Procuratore Capo di Grosseto. “Comandante, abbiamo bisogno di voi…” è l’esordio. “Dobbiamo recuperare i dati della Concordia per capire ed avere prova di quel che davvero è successo” mi dice il dottor Francesco Verusio, che conosceva bene la mia squadra di cui aveva apprezzato la superlativa efficacia investigativa già quando era “Aggiunto” alla Procura della Repubblica di Roma.

“Non possiamo delegarvi le indagini perché sono stati – immediatamente a seguito del drammatico incidente – incaricati in loco i vostri colleghi della Capitaneria di Porto e dei Carabinieri, ma non possiamo fare a meno di voi…”

Il magistrato mi spiega che i “posti a sedere” nel fascicolo erano già esauriti, ma che se non ci si offendeva si poteva ipotizzare uno “strapuntino” nella insolita veste di “ausiliari di polizia giudiziaria” a supporto del Giudice per le Indagini Preliminari. Si trattava di un ruolo marginale, spesso affidato pro tempore a “laici” che – in veste di gestori di sistemi informatici – devono “custodire” il materiale hi-tech o collaborare in una sorta di manovalanza con gli investigatori di più elevato lignaggio.

Il GAT, un tempo Gruppo Anticrimine Tecnologico (che, tra le tante cose, catturò e fece condannare gli hacker entrati nei server del Pentagono e della NASA) e poi Nucleo Speciale Frodi Telematiche (che con la Corte dei Conti rivelò il plurimiliardario danno erariale causato dalle slot machine non collegate all’Anagrafe Tributaria), era abituato a lavorare e a farlo bene, a prescindere dalle etichette e dai riflettori spesso puntati sul suo operato (quelli della stampa entusiasta per le epiche avventure, quelli delle “Superiori Gerarchie” sempre allarmate dall’eccessiva indipendenza e dalla troppa visibilità del reparto).

Niente affatto turbati dalla temuta “deminutio capitis”, si è capito che si era concretizzata la fatidica scena di “Animal House” in cui John Belushi esclama che “quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare…”.

Il tempo di chiudere la telefonata, il GAT in un attimo si è precipitato a Grosseto per mettere a disposizione competenze uniche in giro per il mondo e senza sapere che quella sarebbe stata l’ultima grande emozione che quegli specialisti avrebbero vissuto. Fu proprio quell’attività la goccia che fece traboccare il vaso e che determinò l’indifferibile necessità che io fossi destinato a frequentare il corso di perfezionamento al Centro Alti Studi per la Difesa e quindi a perdere il comando del GAT (con buona pace di chi mi aveva fatto la guerra dal 3 luglio 2006 quando iniziai ad occuparmi delle irregolarità di quel “gioco legale” che di tale aggettivo aveva poco almeno nella realizzazione constatata dagli accertamenti).

L’opera del GAT fu la più significativa azione di ingegnerizzazione delle indagini, scattata con la ricognizione di chi-poteva-fare-che-cosa, con l’individuazione di chi poteva insegnarci quel che non sapevamo (ad esempio l’Agenzia per la sicurezza del Volo che ci ha guidato nelle viscere delle scatole nere e reso “combat ready” anche su quel fronte per noi a quel momento inesplorato), con il reperimento delle attrezzature necessarie per un così impegnativo cimento, con lo studio leopardianamente “matto e disperatissimo” per trovare le soluzioni metodologiche più efficaci nel recuperare i dati, nel preservarne l’integrità e nel certificarne l’originalità e l’attendibilità.

Una volta recuperati e inventariati i materiali su cui svolgere la più delicata autopsia informatica degli ultimi anni, si è pianificato un calendario delle iniziative schedulato ricorrendo ai diagrammi di Henry Lawrence Gant, alle reti di Karl Adam Petri e ad ogni altro metodo capace di evitarci cervellotiche ripetizioni o attese dannose dovute a mancanza di qualcosa da altri passaggi….

Si è organizzato l’esame della scatola nera della Costa Concordia alla OTO Melara di La Spezia, unica realtà in grado di ospitare decine e decine di persone (i consulenti di parte erano numerosissimi…) all’interno di una “camera bianca” (un laboratorio chimico, meccanico e/o elettronico caratterizzato dalla presenza di aria molto pura, cioè a bassissimo contenuto di microparticelle di polvere in sospensione) per svolgere in sicurezza l’esame tecnico del dispositivo e l’acquisizione dei dati al suo interno.

La constatazione che la “scatola nera” era “fuori uso” ha sicuramente scosso la vasta platea presente per gli accertamenti, ma non ha fatto agitare i ragazzi del GAT. Se la “scatola nera” avrebbe potuto raccontare le ultime 24 ore di funzionamento (la sua registrazione si interrompe quando viene “staccata” dal suo alloggiamento e quindi è sempre urgente recuperarla il prima possibile per evitare che gli eventi di interesse vengano automaticamente “sovrascritti” con il passare del tempo…), i computer di bordo potevano “regalare” gli ultimi 30 giorni….

Sinteticamente – almeno per non tediare chi non è appassionato di “computer forensic” – si è passati a “ricostruire” le dotazioni informatiche portate a terra dopo la loro “estrazione” dal loro alloggiamento a bordo. Un lavoro meticoloso in cui la professionalità dei “gattini” è stata messa a dura prova.

Abbiamo deciso di videoregistrare con più telecamere (così da assicurare che non c’erano trucchi) ogni singola anche minuscola attività, invitando i consulenti di parte a presenziare nei nostri uffici o a seguire in streaming il nostro operato.

Quasi tre mesi di sforzi davvero non comuni, spinti dalla consapevolezza che il nostro risultato avrebbe costituito la spina dorsale del procedimento penale, supportati dai magistrati che hanno saputo “coccolarci” con la loro inossidabile fiducia.

E così – oltre ai dati della “sensoristica” dei diversi strumenti di navigazione – sono stati resuscitate immagini e voci della “plancia di comando” e della “sala macchine”, garantendo la segretezza di quel che veniva recuperato a dispetto delle fughe di notizie che caratterizzano troppi processi e che nello specifico contesto erano fortemente sollecitate da più parti.

Quel che oggi si vede e si sente, permettendo di rivivere quegli istanti di paura e dolore, lo si deve alla sorprendente bravura e alle tante notti in bianco di Davide “Nuvola Bianca” Mancini, Vincenzo “Nelson” De Donno, Antonio “o’ mariuolo” Barone, Damiano “Nonsisaqualeilnome” Franco e Francesco “Trottolino” Prestifilippo, il cui nome non ha trovato spazio nei titoli di coda dai tanti reportage e approfondimenti resi possibili dal risultato del loro magistrale lavoro. A distanza di dieci anni dalla più brutta pagina della marineria tricolore, credo sia doveroso non dimenticare chi ha saputo mostrare professionalità e dedizione ben più vicine alla tradizione italiana di quanto non lo fosse l’indecente abbandono della nave da parte del suo capitano.

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Umberto Rapetto

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