Il principe De Curtis avrebbe detto “ma mi faccia il piacere…”, ma replicare così al titolare del dicastero della Transizione sarebbe troppo sbrigativo.
“Non serve studiare quattro volte le guerre puniche, occorre cultura tecnica. Serve formare i giovani per le professioni del futuro, quelle di digital manager per esempio” ha dichiarato Cingolani al “TG2 Post” facendo rabbrividire le poche superstiti persone di buon senso.
Ho fatto, credo benino, il liceo classico. Oltre alle guerre puniche, ho studiato latino e greco. Nell’ottica del Ministro sarei stato tagliato fuori dall’irrefrenabile processo evolutivo, mancandomi – a dir suo – le basi per cimentarmi nei contesti tecnologici che lui definisce il futuro e che per me (e per tanti altri) sono invece il passato remoto o ad esser buoni quello prossimo.
Nonostante Annibale e i suoi elefanti, Cartagine, Asdrubale e Publio Cornelio Scipione, ho potuto giocare con l’informatica con discreta disinvoltura e qualche piccola soddisfazione.
Alla Transizione del Ministro mi permetto di opporre un briciolo di intransigenza, quella che dovremmo avere un po’ tutti dinanzi alle ripetute dimostrazioni di gratuita assertività.
Proviamo a vivisezionare la sconfortante affermazione di Cingolani.
Il “non serve studiare” – a prescindere da cosa – fa scopa con l’ormai cristallizzato “con la cultura non si mangia” che ha corroborato il decadimento di questo Paese, spianando la strada all’apprendimento e all’informazione “via social”, appiattendo (in ossequio al famigerato “uno vale uno”) il desiderio di migliorarsi e la legittima aspirazione a progredire, portando a pesare il valore di una persona sull’entità della sua retribuzione e non sulle sue capacità e competenze, ottenendo i risultati sociali ed economici che non hanno bisogno di caustici commenti per essere evidenziati.
L’ossimoro “cultura tecnica” ricorda il ghiaccio bollente cantato da Toni Dallara. La cultura, quella vera, non è il nozionismo e neppure l’esasperata settorializzazione in uno specifico ambito: è il fare tesoro di quel che si è imparato e l’aver voglia di sapere di più. La cultura è quella che regala l’elasticità mentale che si rivela indispensabile nel momento in cui la propria specializzazione è divenuta obsoleta oppure semplicemente non serve più. La cultura è tautologicamente la cultura.
Per fare cultura occorre investire davvero, non agevolando l’acquisto di monopattini elettrici o dispensando “buoni acquisto” (18App, Bonus docenti e roba simile) che finiscono con l’esser spesi per comprare “Colora Salvini” o “Come scoreggiare meglio”.
Si potrebbe iniziare selezionando e formando i docenti migliori e garantendo loro uno stipendio proporzionale al ruolo fondamentale della missione educativa che sono chiamati ad assolvere. Molti insegnanti sarebbero più motivati e forse potrebbero rispolverare quella passione a trasferire conoscenza che li aveva portati ad iscriversi a “Lettere e Filosofia” anziché imparare a compilare programmi in Cobol nella solitudine della propria tastiera.
Non credo all’imperativo “Serve formare i giovani per le professioni del futuro”. O almeno non credo alle “professioni del futuro” come sbocco assoluto. Ma quanti “digital manager” potrà mai assorbire il mercato del lavoro? Smettiamola di prenderci in giro, facciamola finita con la nobilitazione anglofona di mestieri vacui come l’etichetta che si appiccica loro…
La corsa alla digitalizzazione inciampa nella rigidità delle organizzazioni pubbliche e private e, più dei “digital manager” dall’indefinito background scolastico e dall’ancor più nebuloso mansionario, occorre una mandria di “traghettatori” che sappia guidare seriamente verso la sponda di efficienza dove le tecnologie sono fondamentali ma comunque suddite della sempre più rara intelligenza umana.
Negli anni il miraggio dell’impiego hi-tech ha portato a popolare le aziende di “programmatori” sfruttati e sottopagati, paragonabili ai minatori di Marcinelle. Esplosioni e crolli, stavolta, vedranno vittime non chi scava carbone virtuale ma le organizzazioni che hanno bruciato i sogni di tanti giovani facendo maturare in loro un cocktail in cui si mescolano desiderio di rivincita e voglia di vendetta bella e buona. La bile si trasforma in linee di codice e inquina i software di uso comune, le applicazioni vitali, le procedure che condizionano l’intero ciclo biologico di chi se ne serve.
Ecco cosa stiamo (rectius, state) formando. Gli incidenti informatici che si susseguono, le paralisi di produzione e commercio, l’inaccessibilità di servizi online sono sintomatologia di attacchi hacker, ma qualche volta nascondono “infezioni” interne che meriterebbero qualcosa di più di semplici visite ambulatoriali…
Ai giovani va garantita la dignità, che non è solo quella di un “posto” da colletto bianco. La cultura, quella vera e non lo smanettare, sarà un ottimo fertilizzante.
Purtroppo la cultura sviluppa il senso critico, mal tollerato dalla politica e dai suoi miracolati. Meglio allevare (proprio nella sua accezione zootecnica) polli in batteria, omogeneizzati nel pensiero, pronti a dire “benchmark” e “feedback” perchè l’hanno sentito dire e non ne conoscono l’equivalente in italiano, disposti a disquisire del nulla cosmico nei convegni autoreferenziali che nemmeno il Covid è riuscito a stroncare…
La cultura insegna anche a dire “no” e quel che è peggio fa capire le ragioni del rifiutare o doversi opporre. In un mondo in cui yeswoman e yesman sono preferiti a chi se lo merita, il non essere d’accordo è un handicap insormontabile.
In previsione di inevitabili penalizzazioni per chi è stato costretto a “studiare quattro volte le guerre puniche”, propongo l’immediata costituzione di un Consorzio di Tutela come quello dei prodotti enogastronomici o almeno – visti i tempi – un gruppo Facebook…
Ho già il nome. “Non Delenda Carthago” potrebbe essere quello giusto…