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TRACCIAMENTO: MENTRE DA NOI SI FANNO CHIACCHIERE E TASK FORCE, ALTROVE SI FANNO I PROGETTI

Umberto Rapetto di Umberto Rapetto
14/04/2020
in EDITORIALI
CORONAVIRUS FASE 2: NON È UN PAESE PER VECCHI
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Si potevano sfruttare le esperienze di Corea del Sud e Singapore. Bastava adattarne le “app”, procedendo ad inserirvi i necessari meccanismi di salvaguardia della nostra riservatezza.

Sarebbe costato poco, sia in termini di tempo, sia in termini di denaro.

Il tracciamento della popolazione, volto a monitorare chi è affetto da sintomi di Coronavirus e a vedere chi va a zonzo senza alcun giustificato motivo, resta nei propositi. Ci si fa belli nelle conferenze stampa, si coinvolgono un po’ di amici nei gruppi di lavoro e (dopo aver visto almeno quattro stagioni di “ER – Medici in prima linea” e due di “Grey’s Anatomy”) si creano tre o quattro task force. Spente le telecamere e riposti i microfoni, tutto si ferma.

L’emergenza non è proprio cominciata ieri, eppure – a parte roboanti proclami e comparsate televisive e sui social – non è successo nulla.

Gli esperti, che invece di lavorare hanno piantato le tende nei più diversi talk show, saranno costretti a spiegare a parenti e amici (e magari anche a noi) perché invece di adoperarsi fattivamente per risolvere il problema hanno preferito trascorre ore e ore in uno studio televisivo o incollati dinanzi alla webcam.

Persino il professor Burioni potrà tornare a casa, lasciando lo studio di Fabio Fazio. Oppure Fabio Fazio potrà raggiungere la propria abitazione, lasciando Burioni a condurre “Che tempo che fa”. Comunque vada, il “dopo-Covid19” si prospetta inquietante.

Si è parlato a lungo di controllare gli spostamenti dei cittadini (senza alcun bisogno di tecnologie, sulle vie consolari in uscita da Roma le lunghe colonne di auto si vedono a occhio nudo…) ed è subito stato un pullulare di idee, proposte, possibilità. Risultato? Zero. Siamo ancora al punto di partenza e l’obiettivo da raggiungere ci fa immaginare una Salerno-Reggio Calabria per il cui completamento ci sono volute due generazioni, forse tre.

Nel frattempo Google e Apple hanno annunciato venerdì scorso un progetto congiunto per stabilire un protocollo operativo per il monitoraggio della pandemia, pubblicando documenti tecnici che sono certamente meritevoli di approfondimenti d’obbligo per le enormi implicazioni per la privacy e la salute pubblica.

Il progetto in questione parte dal tracciamento dei contatti di chi si ammala di coronavirus (ma un domani potrà funzionare anche per altre emergenze analoghe) e, ad identificazione avvenuta, passa alla collocazione in quarantena di tutti coloro che sono stati in stretta prossimità della persona infetta, così da circoscrivere i possibili focolai.

Il sistema, grazie a procedure automatiche, registra i punti di contatto senza utilizzare i dati sulla posizione.

La soluzione poggia sulla possibilità del telefono di riconoscere e registrare la presenza di altri apparati analoghi nelle immediate vicinanze. Lo smartphone lancia ad intervalli regolari un piccolo segnale contenente il proprio codice identificativo IMEI, ovvero la sequenza che identifica in maniera univoca ciascun dispositivo di telefonia mobile.

I telefoni compresi in uno stretto raggio registrano gli altri che risultano vicini, ricordando “chi” e “quando”.

Nel momento in cui un tizio che si avvale di questo sistema risulta “positivo” al coronavirus, può decidere di inoltrare il proprio codice identificativo ad un database centrale. Chiunque si collega a quell’archivio elettronico, attiva la comparazione tra gli ID che ha poco alla volta raccolto sul proprio smartphone e quelli “etichettati” come appartenenti a soggetti che nel frattempo hanno denunciato la propria positività. In caso ci sia una coincidenza tra uno o più ID registrati sul dispositivo e schedati centralmente, il telefono riceve un messaggio che comunica all’utente di essere a rischio e lo invita a mettersi in contatto con l’organizzazione sanitaria preposta.

Non si tratta di una vera e propria app, ma di una piattaforma di base che potranno sfruttare le applicazioni ufficiali per la salute pubblica sviluppate dalle autorità sanitarie a livello statale (e non dalle società hi-tech private, così da garantire i debiti livelli di tutela della riservatezza dei dati personali).

Chi sta lavorando a questo ambizioso progetto spera di integrare tale funzionalità direttamente nei sistemi operativi iOS e Android. La riuscita di un simile inserimento nel software che permette a miliardi di smartphone di funzionare potrebbe agevolare la missione, ma richiederà comunque agli utenti di scaricare una “app” pubblica per consentire l’auspicato monitoraggio nel rispetto della privacy.

La riservatezza sembra essere garantita, ma tutto dipenderà dalle misure di sicurezza che saranno implementate a difesa dell’archivio centrale degli infettati.

Nel frattempo i giorni passano, i gruppi di lavoro e i team di esperti si moltiplicano nell’eutrofia dell’incapacità decisionale e della latitanza delle responsabilità, il contagio fortunatamente dà qualche segno di rallentamento.

Mi auguro che non ci si fermi anche se si arriverà inesorabilmente in ritardo (si guardi il calendario di Seul e Singapore se si è convinti di non aver perso tempo). Questo genere di iniziative tecnologiche dovrebbero essere “costanti” e non solo sprazzi di una rincorsa emergenziale.

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Umberto Rapetto

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