Le migliaia di anni di scontri, guerre e paci nel Medio Oriente tra il popolo eletto e quelli che non sono ebrei, stanno a dimostrarlo. Ma anche l’Iraq, l’Afghanistan, il Libano, la Siria, il Kosovo… l’Ucraina, dove già un mese dopo l’inizio dei bombardamenti la politica e la diplomazia si ritirarono, mentre gli aggressori, la guerra, avanzavano e lo fanno tuttora.
Per cui, quando la politica pare rinunciare, arrivano le guerre.
Un generale intellettuale, stratega e scrittore, Carl Von Clausevitz, diceva che la guerra è la politica fatta con mezzi diversi da quelli convenzionalmente attribuitile. Quando le parole non bastano più a risolvere i problemi, si ricorre alle bombe.
Per tutto il periodo della guerra fredda, della vigenza e del rispetto, cioè, dei patti di Yalta, le armi c’erano e proliferavano, quando più, quando meno, ma, sullo scenario planetario, restavano a far mostra negli arsenali Se scoppiava un conflitto nell’area di influenza dell’Unione Sovietica (vedi Ungheria, Cecoslovacchia ed anche Polonia prima di Wojtyla) l’America in sostanza mandava a dire a Mosca “Son fatti vostri, vedetevela voi”.
Ora è diverso e, se da un lato si è scelta e percorsa la strada della globalizzazione sul piano commerciale, dall’altro si sono riappropriate del loro valore identitario, le religioni e i nazionalismi che sono man mano risorti fino a mutare i contesti, le condizioni di convivenza interna, tra popoli e tra Stati, portandosi appresso il declino degli organismi internazionali, come l’ONU e le sue Agenzie.
Cosicché, in mancanza di un quadro internazionale ordinato, seppur in modi non sempre condivisibili, i fatti di questi giorni stanno a dimostrare che dopo trentasei anni dalla caduta del muro di Berlino, siamo ancora in attesa di vedere quale ordine verrà costituito.
Sembra il caos, ma il belligerante, prima di attaccare, si premura di far avvertire il nemico perché non si faccia troppo male e sia in condizione di tornare prima o poi a trattare. A parlare. Insomma, a sedersi al tavolo della politica, che resta il luogo deputato per ricreare un ordine pacifico tra gli Stati ed all’interno degli Stati.
Oggi si combatte un po’ dappertutto, la guerra mondiale a pezzi, anche perché la globalizzazione, il mutamento del sistema delle classi sociali con il superamento del concetto di rivoluzione che la divisione di esse determinava, hanno messo in discussione il potere stesso degli Stati e disconosciuto l’esistenza di imperi.
Una situazione per la quale, dalle nostre parti, al declinante potere degli Stati nazionali si è inteso far fronte con la costruzione dell’Europa, ma in una forma di organizzazione istituzionale talmente bislacca che, fino ad ora, ne ha determinato la costante ininfluenza sullo scacchiere mondiale.
Intanto, si continuano le guerre.
Guerre di tipo nuovo, rispetto a quelle raccontate nei libri di storia. Dove il consenso sociale di cui non si può fare a meno, comporta la scelta di ridurre al minimo i propri soldati morti e conseguentemente aumentare il ricorso ai mercenari. Ma, soprattutto, privilegiare, rispetto alle milizie sul terreno, l’utilizzo di mezzi d’offesa senza pilota. Raid seguiti dai satelliti, per operazioni chirurgiche di impatto più che sulle truppe su obiettivi fisici sensibili. Quelli più legati alle utilità cui non sono disposte a rinunciare le popolazioni sul cui consenso si asside la politica.
Guerre da videogiochi, dove il militare pronto al rischio della vita è meno determinante del politico che, nella situation room indica agli ingegneri i tasti da cliccare e sui canali stampa radio, video di comunicazione come nei social fa immettere le immagini giuste per sostenere le ragioni della guerra con cui sta facendo “politica”.
Si possono leggere così gli stop and go con annesse precisazioni dell’(ex) imperatore d’Occidente, Donald Trump, le linee rosse sempre disponibili con il Cremlino, l’attenzione non interventista della Cina fino a che le condizioni geopolitiche consentiranno i suoi commerci e gli approvvigionamenti energetici indispensabili.
Certo, ci sono cose totalmente ingiustificabili anche in guerra, come gli orribili massacri di civili a Gaza, ma c’è sempre qualche vantaggio politico ad insistere con le criminali e sanguinose immagini di essi, come di tanti altri, che, nell’epoca appunto dell’immagine, colpiscono più dell’attacco frontale delle armate e, sul tavolo della politica, servono a trasformare le guerre in operazioni di pace.
Parola chiave, questa, del vocabolario di ogni politico, che, in nome di essa, giustifica e fa le guerre. Le quali altro non sono che il mezzo per affermare ed esercitare a pieno titolo il potere, vero fine della politica.
Non a caso, Aneurin Bevan, che, prima di essere ministro a Londra, era stato minatore e sindacalista, dopo le esperienze fatte nel governo di Sua Maestà, disse: ”La politica è uno sport sanguinoso” e Wiston Churchill, paragonandola alla guerra, le considerò eccitanti e pericolose entrambe, con la differenza, però, che ”In guerra, puoi essere ucciso una volta sola, in politica molte volte”.
Con ovvio vantaggio per chi fa politica, con lo snaturamento della guerra stessa in presenza del superamento delle regole cui pure, per ragioni umanitarie, dovrebbe sottostare e la sostanziale indifferenza rispetto ai presidi di legalità rappresentati anche dai tribunali internazionali.
Consoliamoci, pensando che siamo in un momento di transizione.