Abbiamo ancora negli occhi il pazzesco assalto a Capitol Hill che il 6 gennaio scorso ha dimostrato la vulnerabilità della democrazia americana.
A rinfrescarci la memoria sono bastate le immagini delle manifestazioni violente che hanno messo a ferro e fuoco Roma nel pomeriggio di sabato 9 ottobre. I palazzi della politica sono stati ad un passo dal provare il brivido del Campidoglio statunitense e in tanti si sono domandati cosa stesse davvero succedendo.
A scatenare l’inferno non è stato certo chi – per le più diverse ragioni – voleva esprimere il proprio dissenso contro le restrizioni rese necessarie dall’emergenza pandemia. I diecimila (e forse stavolta i dati della Questura non saranno distanti da quelli della stampa) che hanno “animato” la Capitale per ore e ore includevano squadristi organizzati in maniera minuziosa, determinati ad aggredire le Forze dell’Ordine, decisi a devastare quel che capitava a tiro, focalizzati a raggiungere l’obiettivo di una possibile destabilizzazione, preparati a conquistare un edificio che costituisse un simbolo e dove sfogare la loro belluinità.
L’orda barbarica che ha saccheggiato il palazzo della CGIL a Corso d’Italia ha evocato i “vichinghi” d’oltreoceano che avevano profanato le aule parlamentari di Washington ma soprattutto ha fatto riemergere il ricordo di tempi lontani cent’anni in cui si assisteva al tramonto dei diritti fondamentali nel nostro Paese.
Quel che è accaduto non si può configurare come una sbalorditiva jam-session di pochi strumentisti in una esibizione jazz. Non siamo dinanzi alla performance di una manciata di virtuosi capaci di trovare l’armonia e il ritmo in assenza di uno spartito musicale.
Non si venga a raccontare che non si poteva immaginare un epilogo come quello cui si è assistito. Non si provi a dire che era difficilissimo prevedere una simile escalation. Non ci si azzardi a proclamare il fatidico “ad impossibilia nemo tenetur”.
I criminali che – a mutuare una loro espressione rimbalzata in Rete – si sono presi Roma, non erano Von Clausewitz o Sun Zu e quindi capaci di manovre tattiche imprevedibili.
Questi personaggi non disponevano della macchina Enigma per blindare le loro comunicazioni e quindi non c’era bisogno di Alan Turing per decifrare i messaggi e conoscere il contenuto dei programmi di azione. I vandali neofascisti utilizzavano (e non era certo una novità) normalissimi canali Telegram, gli stessi che – secondo quanto strombazzato dai mezzi di informazione – erano oggetto di attentissimo e incessante monitoraggio delle articolazioni di polizia preposte alle attività di prevenzione del crimine e al controllo del fronte digitale.
Possibile quindi che – forti di una Agenzia Cyber, di possenti strutture di intelligence, di qualificatissime risorse investigative – nessuno abbia anche solo ipotizzato qualcosa di lontanamente paragonabile a quel che abbiamo visto fino a notte?
I più turbolenti – che non è una novità vederli cavalcare qualsivoglia evento incentrato sul malcontento popolare – sono persone perfettamente conosciute a chi deve garantire l’ordine pubblico e la serenità sociale. Nomi, cognomi, indirizzi di casa, numeri telefonici, email, account di ogni sorta, relazioni e collegamenti di questa gente sono presenti negli archivi: cosa è stato fatto per tracciarne movimenti ed iniziative?
Avvezzi a vedersi tributare meriti anche infondati, è difficile prendersi responsabilità su quel che non si è fatto o lo si è fatto male. Importa davvero così poco se la debacle della credibilità istituzionale abbia ieri toccato il fondo?
La coscienza di chi ha a cuore il futuro del Paese (ma ci si potrebbe accontentare della sicurezza di oggi) lacrima nel vedere l’impotenza dei tutori della legge in balia di incontrollabili torme di scalmanati furiosi.
Credo sia legittimo aspettarsi una reazione proporzionata all’accaduto con la meticolosa ricostruzione degli eventi, l’individuazione di soggetti e rispettivi ruoli, la mappatura (se già non ci fosse) delle reti organizzative di questa insopportabile minaccia, l’adozione dei provvedimenti “naturali”, la pianificazione dell’assetto da assumere in previsione di non così remote reiterazioni.
Al tempo stesso deve scattare un severo processo di autocritica, magari avendo a portata di mano un foglio su cui non esitare a vergare le proprie comprensibili dimissioni da posizioni che forse non sono state ricoperte con quella capacità che il cittadino si aspettava.
Il passo da “No Green Pass” a “No State” è davvero breve. Fermiamolo prima. Accanto alla spontanea mobilitazione della società civile e alla risposta di partiti e sindacati che hanno prontamente commentato, ci si aspetta che le Istituzioni politiche e giudiziarie facciano la loro parte e provvedano senza perdere tempo dimostrando che lo Stato c’è ancora e si sa far valere.