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LA LEZIONE CHE L’11 SETTEMBRE CI HA INSEGNATO E NON ABBIAMO CAPITO

Umberto Rapetto di Umberto Rapetto
11/09/2021
in EDITORIALI
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Difficile da credere, ma tocca aspettare le ricorrenze per fare qualche riflessione.

Si guarda al passato stavolta saltando indietro di vent’anni tondi tondi, non rendendoci conto che abbiamo fatto trascorrere un mucchio di tempo senza far tesoro di certe esperienze terribili.

Dopo la nascita di Cristo che ha segnato la divisione del calendario planetario (o almeno di quello occidentale), l’attacco al cuore dell’America ha marcato nettamente la linea di separazione nella prevalenza dei rapporti di forza.

Fino al giorno prima nessuno (le rare eccezioni non meritano di essere computate) aveva immaginato che una manciata di persone potesse ingaggiare e vincere un braccio di ferro con una super-potenza. Cullati dal dondolante andamento della Guerra fredda, si pensava che l’equilibrio internazionale potesse giusto contemplare qualche brusca oscillazione tra USA e URSS: erano tempi in cui nemmeno la Cina metteva così paura, anni durante i quali ci si era abituati a non avere sorprese e tanto meno sbigottimenti sconcertanti.

L’11 settembre del 2001 segna il passaggio dalla contrapposizione di grandi nazioni armate fino ai denti alla guerra asimmetrica, decreta la morte della diplomazia impossibilitata ad individuare l’interlocutore con cui trattare, invita alla rapida presa di coscienza che il mondo è cambiato e che nulla sarà più come prima.

L’esistenza di un nemico invisibile (o semplicemente imprevedibile) ha dimostrato l’inadeguatezza della macchina dell’intelligence, la cui ridotta efficacia ha continuato a radicarsi a dispetto della presunta efficienza strombazzata senza tema di (frequente) smentita.

La devastante dimostrazione che qualche aereo di linea potesse far più danni di uno stormo di bombardieri è la ciliegina su una torta già fin troppo indigesta. Gli Stati Uniti – allenati a combattere “in trasferta” – non potevano infatti immaginare che il centro di New York o la periferia di Washington potessero diventare il campo di battaglia e addirittura lo sfondo di una cocente sconfitta sotto gli occhi allibiti del pubblico intercontinentale.

L’incapacità di individuare l’avversario, di localizzarne l’esatta provenienza, di riconoscere il perché e conseguentemente di immaginarne le mosse successive, sconquassa le speranze della collettività, quasi si trattasse di un innovativo piano vaccinale omeopatico che possa preparare la gente alla rassegnazione assoluta.

Sul fronte cibernetico – quello di cui tutti parlano con la medesima disinvoltura con cui al Bar dello Sport si disquisisce dottamente delle scelte e delle strategie degli allenatori o delle prestazioni dei calciatori – si vivono le stesse emozioni di chi da dentro le Torri ha visto gli aerei schiantarsi. 

Non avendo compreso che un folle con un computer può paralizzare il mondo e mettere in ginocchio Governi e “corporation”, non ci si sforza per affinare la ricerca informativa e per studiare le soluzioni preventive. Si gioca con avvincenti modelli predittivi, orgogliosi delle applicazioni di intelligenza artificiale, ma non si amplia la gamma delle variabili da considerare. Non si è capito che la bassa probabilità di accadimento di un evento o di una azione non si traduce nell’impossibilità a verificarsi.

Dobbiamo considerare “normale” anche ciò che è semplicemente inaspettato. Se si vuole trovare una scorciatoia, forse vale la pena rispolverare quel che diceva Stella Rimington. La grande donna, che dal 1992 al 1996 ha diretto il leggendario Servizio Segreto britannico “MI5”, insisteva nel sostenere che non si doveva semplicemente combattere il terrorismo ma dare priorità alla lotta per eliminare le cause che lo innescano.

Abbiamo fatto qualcosa in tal senso nel frattempo?

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