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IL RISCHIO CYBER E LA SICUREZZA DI UNA POLTRONA

di Umberto Rapetto
18/11/2020
in EDITORIALI
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Nelle pagine de “I ragazzi della via Pal” c’era soltanto un soldato semplice, il piccolo Nemecsek.

Quel libro ha probabilmente ispirato la politica dei nostri giorni, dove son tutti generali e commissari e la guerra quotidiana viene persa tutti i giorni.

L’incombente apparizione del non mai abbastanza lodato Istituto Italiano per la Cybersicurezza è destinato ad essere la più indigesta ciliegina sulla torta.

Una non proprio vaga conoscenza degli scenari cibernetici mi spinge ogni giorno a segnalare situazioni incresciose, frutto di incompetenza e indifferenza di chi dovrebbe veramente – e non a chiacchiere – occuparsi di certe cose.

L’incidenza del corretto funzionamento dei sistemi informatici nella vita di chiunque e di tutti i giorni è evidente e non ha certo bisogno dell’ennesima articolazione burocratica che ne faciliti la comprensione.

Mi sorprende la cementificata condizione prona di chi siede in un incarico che verrebbe mutilato o comunque sovrapposto dalla missione del cosiddetto IIC. “Nessuno, ti giuro nessuno” – avrebbe cantato Toni Dallara – si è permesso di far presente che su “certe cose” ci stava già lavorando. Forse ognuno degli esimi personaggi ai vertici di questa o quella struttura pubblica si è permesso di rivendicare il proprio ruolo per l’incapacità di raccontare e far comprendere cosa avesse fatto in questi anni e quali obiettivi avesse raggiunto.

Per pietà evito di elencare le tante realtà istituzionali che avrebbe avuto ragione di lamentare l’inopportunità del nascente Istituto. Lo spirito di sopravvivenza è prevalso. Guai a criticare chi siede sulla poltrona più alta, perché qualsivoglia osservazione – pur planare e, se vogliamo, d’obbligo – può mettere in cattiva luce chi si permette di muovere obiezioni o dare consigli non corrispondenti all’idea preconfezionata di chi invece dovrebbe farsi guidare.

Conosco bene questa regola aurea e sono ben cosciente che il mio scrivere vada inevitabilmente a nuocere alla mia “carriera”, ma la serietà non ammette genuflessioni. Non piace la gente che pensa e la competenza è un imperdonabile demerito. C’è sempre qualcuno (magari quello che decide o potrebbe farlo) che ti dice “però hai un carattere di merda” (come mi disse un mio collega di Nunziatella e di Accademia oggi molto importante) e così si consacra la selezione degli ubbidienti a scapito di quella doverosa di quelli più o meno bravi.

Se si è arrivati a questo punto lo si deve a numerosi fattori.

Tanto per cominciare non esiste un centro di ricerca e sviluppo che sia davvero degno di questo nome. Si è confusa la coreografica presentazione di una manciata di slide con la sperimentazione e la sua successiva applicazione pratica. Leggiamo di invenzioni e soluzioni americane, israeliane, sudcoreane, cinesi, russe e mai capita di compiacersi per qualcosa che sia davvero etichettato come “made in Italy”. E’ solo un problema di comunicazione con i cittadini? Colpa, quindi, degli uffici stampa?

Probabilmente le lacune non risiedono soltanto nella diffusione di belle notizie sui traguardi raggiunti. Si sarebbe portati a pensare che manchino i risultati.

Ho provato a suggerire a chi ha un incarico di prestigio in una azienda leader del settore hi-tech e in quello della Difesa di ribaltare l’approccio industriale e commerciale sul fronte della cybersecurity e conquistare rapidamente un ruolo propulsivo nel settore con possibili riverberazioni (e prospettive) internazionali.

Mi ha risposto “non è nel DNA di questa realtà”.

A nulla è valso cercare di spiegare che le mutazioni genetiche sono quelle che permettono (anche ai virus) di sopravvivere.

A questo punto ci si augura il semplice riemergere del buon senso. La celeberrima “casalinga di Voghera” vorrebbe alzare un dito e domandare se con quei 210 milioni di euro (e con i miliardi che verranno gestiti dall’IIC) non si poteva fare qualcosa di diverso…

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Umberto Rapetto

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