Non mi si venga a raccontare che la guerra a Huawei è un capriccio del Presidente Trump. E nemmeno si pensi che io creda all’innocenza del colosso cinese, quasi la storia dello spionaggio industriale fosse una recente boutade per azzoppare un pericoloso produttore concorrente.
Tutti parlano (e molti si impegnano per farlo a vanvera) della grande azienda di Shenzen senza conoscere una serie di precedenti storici che potrebbero consentire una più serena lettura dei recenti eventi del braccio di ferro tra Stati Uniti e Repubblica Popolare.
Chi si è svegliato ieri esperto di cyber security (come Alberto Sordi nel film “Troppo forte” un giorno medico, quello dopo avvocato e quindi ballerino classico…) probabilmente non conosce qualche antefatto che può risultare quanto meno suggestivo.
La storia delle scorribande di spionaggio industriale di Hauwei e della sua Futurewei, che ha sede a Santa Clara in California, comincia nel 2003.
La collocazione temporale è sufficiente per dichiarare per obiettive e insindacabili questioni cronologiche l’estraneità sia di Donald Trump sia di Barack Obama. La vicenda primigenia, infatti, ha avuto luogo quando alla Casa Bianca abitava George W. Bush jr. e nessuno ipotizzava complotti economico-finanziari.
L’ormai storica causa presso la Corte di Giustizia per il Distretto orientale del Texas per violazione di segreti produttivi e di opere dell’ingegno tutelate dal diritto è etichettata “266 F. Supp. 2d 551” e chi vuole approfondire la questione senza pregiudizi di sorta ne può leggere le carte.
Chi reputa la vicenda infondata, può invece dare un’occhiata ad un articolo di marzo 2003 uscito sul Wall Street Journal, in cui si legge (ma lo si trova anche altrove) che il colosso cinese avrebbe ammesso di aver copiato “un pochino”…
Quel “cicinino” che sarebbe stato sottratto si tradurrebbe nella violazione di cinque brevetti di Cisco e nella copia abusiva del codice sorgente dell’Internetwork Operating System (IOS) sempre di proprietà della azienda americana. In aula la società di Shenzen ha ammesso che un dipendente (naturalmente impossibile da identificarsi) avrebbe “inavvertitamente” inserito nel software VRP trentamila righe di codice (poche ma magari fondamentali nel milione e mezzo di quelle complessive) scopiazzate dal programma dell’impresa statunitense. Il maltolto era stato memorizzato su un disco che è ripetutamente passato di mano in mano da un dipendente ad un altro, rendendo impraticabile qualsivoglia ricostruzione dell’accaduto e ancor meno l’auspicata individuazione delle responsabilità.
Tralasciando questioni ataviche e querelle che ormai hanno quasi raggiunto la maggiore età, vale la pena segnalare che Huawei (in compagnia dell’altra realtà cinese ZTE) ha appena ricevuto un’altra pesante “mazzata” (termine d’obbligo vista l’identità del giudice che l’ha sferrata).
Amos Mazzant, questo il nome del magistrato, martedì 18 ha dichiarato l’infondatezza del ricorso presentato da Huawei e con cui si rappresentava l’incostituzionalità della messa al bando. Il provvedimento (qui disponibile per chi ha giustamente il vizio di conoscere le fonti e di sincerarsi dell’attendibilità di quel che si racconta) è la risposta all’azione legale di Huawei che aveva considerato lesivo dei diritti fondamentali il provvedimento normativo che vieta la vendita dei suoi apparati all’Amministrazione pubblica USA. Il giudice ha ritenuto che la presunta penalizzazione era da intendersi invece come legittimo limite commerciale ancorato ad insormontabili problematiche di sicurezza nazionale.
Come Berlusconi rappresentava l’aggressività della Procura milanese nei suoi confronti, qualche tifoso del produttore cinese potrebbe richiamare l’attenzione dicendo che anche stavolta è lo stesso Tribunale del Texas ad occuparsi delle faccende in questione.
Ad ogni buon conto, secondo Mazzant, la legislazione americana ha lasciato a Huawei molte altre opportunità come quella di vendere i propri dispositivi a soggetti privati negli Stati Uniti, nonché a migliaia di potenziali clienti, pubblici e privati, in ogni angolo del mondo.
Comunque la si pensi, le forniture per infrastrutture e servizi strategici non possono essere affidati a interlocutori su cui non veleggino dubbi di qualsiasi sorta.
Ripescando lo slogan di una importante industria casearia italiana, serve trovare qualcuno il cui nome “vuol dire fiducia”. Perché come diceva il Carosello “la fiducia è una cosa seria che si dà alle cose serie”.