La guerra americana al mondo oggi si combatte anche a colpi e contraccolpi di tasse sui prodotti degli altri. E’ una delle “nuove guerre” segnalate in tempi non sospetti, era il 2001, dal saggio di Umberto Rapetto – che ne ha riscritto mercoledì 30 luglio su Giano – e del Direttore Roberto Di Nunzio.
Insieme, due anni dopo, analizzando le “ragioni segrete, incredibili, ovvie” dell’Attacco all’Iraq, richiamarono una riflessione di George Orwell da loro considerata utile in generale: “Se volete conoscere il futuro, immaginatevi l’impronta di uno stivale lasciato da un calcio in faccia”.
Il futuro di allora è oggi e l’immagine della pallina da golf piena di dazi scagliata da Trump in terra di Scozia pare confermare l’assioma.
D’altronde, se à la guerre comme à la guerre, gli USA non hanno mai rinunciato alla loro natura di Stato-continente con gli Oceani a dividerli da tutti gli altri e un fortissimo senso delle proprie identità, unità ed anche diversità. America first nell’ambito di una concezione più di famiglia che di nazione, diceva Arrigo Levi, “un Paese di umori”, nel senso che essi cambiano e determinano le politiche, ferma restando l’affermazione della supremazia. Dopo Biden e il deep state dominante in un piatto umore autoreferenziale, la rivalsa ruvida dell’America profonda ed anche un po’ provinciale ha dato a Trump il compito di difendere ad ogni costo gli interessi di famiglia, rilanciando alla maniera dei cow boys una nuova sfida mondiale per riaffermare diversità, unità e potenza. Anche con grida scomposte e parole che sembrano urlate prima di essere pensate: la gragnuola di percentuali accostate alla parola dazi e lanciata nello spazio planetario perché se America first deve affermarsi, non ci può essere altro per gli altri.
Al macero, quindi, gli organismi internazionali, da quelli sanitari a quelli del commercio fino ai sancta sanctorum del Palazzo di vetro dove l’ONU è comunque in affitto dalla famiglia USA.
E l’Europa? Davvero l’America la considera sorella se non madre o i figli dei conquistatori e poi degli immigrati possono sentirsi più latinos o anglosassoni che texani e newyorkesi?
Piuttosto, la Comunità prima e l’Unione di Bruxelles ora son riuscite a forgiarsi una personalità individuale, unita e forte da poter a pieno titolo competere da superpotenza con le altre superpotenze? Tanto più che, seppur caduta l’URSS, la Russia resta un impero che non tollera “regimi ostili” ai propri confini.
E se “le nuove guerre” si possono combattere con le spunte degli uffici doganali cinicamente attrezzati per l’accrescimento dei forzieri di Washington e per la sola economia domestica, America first, su quale pace – che significa anzitutto miglioramento delle condizioni dell’umanità planetaria –può far sperare?
In tempi di discussione sul “riarmo” del vecchio continente, ci si può domandare se l’Europa sarebbe potuta stare alla pari con le altre Superpotenze – e non soccombere anche nella nuova guerra dei dazi – ove la Comunità Europea di Difesa, decisa il 27 maggio 1952, avesse poi prodotto l’esercito europeo vagheggiato da due grandi pacifisti ed europeisti come De Gasperi e Schumann?
La libertà – e l’Europa è comunità libera – ha bisogno di contrafforti a difesa e l’esercito europeo a questo sarebbe servito negli intendimenti di chi volle la CED. Ma ci fu chi ne bloccò il disegno. All’interno del continente, e pure di là dall’Oceano. Gli americani, o almeno molti personaggi che lì contavano, non mostrarono entusiasmo per la CED, forse anche per timore che, con essa, gli equilibri di supremazia sostanziale Usa nel contesto degli Accordi Atlantici ne avessero a soffrire.
Maria Romana, la figlia di De Gasperi, racconta di aver visto il “padre in lacrime che scendevano senza vergogna sul volto ormai vecchio, mentre gridava al telefono al presidente del consiglio Scelba: Meglio morire che non fare la CED!”. In una lettera di qualche anno prima all’American Committee of United Europe, lo statista trentino aveva rivendicato che l’Europa era “basata su una realtà preesistente e in questo era la sua forza”.
Ma sul futuro dell’intuizione sua, di Monnet, di Schuman, di Spaak, di Adenauer era in agguato l’orwelliana impronta di un calcio in faccia. Come quella lasciata in Scozia da Trump.
Nel 1970, Altiero Spinelli, l’autore del Manifesto di Ventotene per l’Europa Libera e Unita, disse che l’Unione “va avanti per crisi successive. Dobbiamo riflettere sulle sconfitte passate per preparare meglio le prove di forza future”.
Perché ce ne saranno e ogni guerra è fatta di battaglie. Non può scoraggiare averne in gran parte persa una.