Di Donald Trump tante se ne son dette e se ne dicono con ironia e sarcasmo, se non con disdegno, in riferimento alle politiche e ai modi in cui le fa. Non senza collegarne l’interpretazione persino al facciale e alle posture del massiccio e policromo corpo. Segni, peraltro, rilevatori di una qualche studiata affermazione da uomo alfa .
O, forse e meno banalmente, può darsi che il Tycoon – come lo chiamano chissà se per invidia della fortuna miliardaria che l’assiste – abbia letto e metta in pratica gli insegnamenti del nostro Machiavelli per il quale un Capo, “il Principe debbe non si curare della infamia di crudele per tenere li sudditi suoi uniti. Perché sarà più pietoso di quelli i quali, per troppa pietà, lasciano seguire disordini”.
Crudele con i dazi, crudele con Zelensky nella Sala Ovale, crudele con l’amorfamente sfuggente (ai propri obblighi di alleato) Europa, crudele con la leva che abbassa e alza per favorire con le armi, questo o quello. Compreso Netanyahu, pure lui, della scuola del Machiavelli di “Dell’arte della guerra”: “Meglio è vincere il nimico con la fame che col ferro”, perché nella vittoria con le armi “può molto più la fortuna che la virtù”.
Questo per dire che dopo Biden, il buono per definizione – della bontà come sanno manifestarla gli USA nelle loro missioni di pace là dove gli interessi di dominio li conducono e poi, quando conviene, distraggono – dopo il democratico che volle la guerra con le armi di casa, ma lontano da casa, in Ucraina, insomma il crudele e volubile Trump mette un punto fermo. Incontra in Alaska l’arcinemico universale Vladimir Putin, aggressore e pure criminale, come proclamato dalla Corte Penale Internazionale, la massima giustizia mondiale.
La pace è di là da venire, ma le mani crudeli che si stringono sembrano comunque aver indicato in insieme un percorso: quelle di Donald Trump – di cui si sa – e quelle di Putin, inseguito da un mandato di arresto planetario e già definito dal mite Biden, quando era presidente USA, “assassino, criminale di guerra” e perfino “figlio di…”.
Lo stesso Putin che fino a tre anni fa era accolto ovunque, nell’occidente, con l’onore e il rispetto che si deve ad un uomo potente ma “moderato e preciso, dotato dell’abilità e delle doti indispensabili per il duro lavoro di gestire la turbolenta vita politica ed economica della Russia” Così lo definì, infatti, il predecessore di Biden, Bill Clinton, cui lo presentò Boris Eltsin all’indomani della fine dell’URSS, della caduta dell’impero sovietico, con gli stati satelliti ex comunisti, Ucraina compresa, da liberare e portare alla democrazia.
Parole su Trump, Biden, Putin, previsioni e giudizi che non sempre tengono conto della prudenza imposta dal rispetto degli arcana imperii. Che, indipendentemente dai regimi, dalla trasparenza o dalla glasnot, sono l’irrinunciabile segreto più segreto che avvolge decisioni e comportamenti che si prendono “colà dove si puote ciò che si vuole”. Di cui si può e si deve parlare, ma con la consapevolezza, che perfino Dante, quando ne voleva sapere e dire di più, venne seccamente ammonito da Virgilio “… e più non dimandare”.
Arcana imperii per i quali i cattivi della contemporaneità si sono comunque incontrati ed hanno parlato di pace. Anche in Ucraina, là dove la costruzione di una piena democrazia non è mai stata facile. “Aveva tanti ostacoli ancora da superare” scrisse Clinton dopo un affollato discorso in una “Kiev bella nel sole della tarda primavera” del 2000.
Era stato prima in visita ufficiale da Putin diventato presidente della Russia, il quale, con particolare attenzione, volle offrire all’ospite americano patito del jazz un “concerto di musicisti russi di età variabile, adolescenti e ultraottantenni… la migliore performance dal vivo a cui avessi mai assistito”.
Una sensibilità artistica che, stando a quanto si è letto negli ultimi tre anni, parrebbe non poter albergare nell’animo di quello che chiamano il nuovo Zar.
Invece non era una prima e sporadica volta. Nel 2007, ad esempio, quando morì il grande violoncellista ebreo russo Mstslav Rostropovic, Putin definì la scomparsa: “una perdita terribile per la cultura russa e per la difesa dei diritti civili”. Testimonianza non di poco conto da parte di uno che era stato a capo del KGB e nei confronti di un grande artista ebreo russo che aveva ottenuto l’autorizzazione a lasciare l’Unione Sovietica su richiesta di Ted Kennedy a Leonid Breznev, forse ipotizzando, il Capo del Soviet Supremo, la possibile elezione alla Casa Bianca del fratello di Jhon.
Con questi uomini – e nonostante i giudizi tempo per tempo degli altri uomini – si fa la storia.
D’altronde, il vice presidente USA, Hubert Humfrey, diceva “Errare è umano. Biasimare qualcun altro è politica” e, si sa, “nel linguaggio della politica nulla è per sempre”. Parole di Benjamin Disraeli, a lungo primo ministro del Regno Unito.