Italian Pride, così, nel 2001, Repubblica titolò un articolo di Conchita de Gregorio sul ritorno della festa nazionale della repubblica dopo ventitré anni che la ricorrenza era stata messa alla mercé del calendario: una qualsiasi diversa data coincidente con la domenica successiva.
Quando nel 1999 Carlo Azeglio Ciampi venne eletto al Quirinale, fece subito capire che la cosa non gli stava bene. Era, per Costituzione, il “rappresentante dell’unità nazionale”. Logico che si sentisse conseguentemente impegnato a custodire e curare la visibilità e la condivisione di quanto necessario a renderla effettiva. Per primi i simboli, dall’inno alla bandiera, fino ai riti, come appunto le ricorrenze. Anzitutto quella del giorno in cui gli italiani, votando, scelsero da un lato la democrazia, dall’altro il regime repubblicano, cioè la “forma dello Stato”.
Non la pensava diversamente un altro presidente, Luigi Einaudi, anche lui come Ciampi già governatore della banca d’Italia (…poi, dicono che i banchieri non hanno un’anima!).
Quando De Gasperi, capo del governo, gli fece sapere che la Democrazia Cristiana, il partito di maggioranza, lo avrebbe candidato al Quirinale, disse ad Andreotti, che glielo comunicava, di esitare ad accettare per via di un proprio “grave inconveniente”.
Il giovane collaboratore di De Gasperi (che era già …Andreotti) pensò si riferisse al voto che, nel referendum del 2 giugno 1946, aveva dato alla Monarchia e considerò che non si trattava di ostacolo insormontabile, visti i “precedenti”.
Infatti, il capo provvisorio delle Stato in carica, eletto dalla repubblicana Assemblea Costituente, era l’avvocato napoletano Enrico De Nicola, già talmente monarchico che, nel cessato Regno dei Savoia, per quattro anni aveva presieduto la Camera.
L’inconveniente era però un altro. Einaudi soffriva di una leggera zoppia e si chiedeva come avrebbe potuto passare in rivista i militari, ritenendo questa cosa non mero accessorio, ma evidenza esteriore del dovere di riconoscenza alle forze di difesa dello Stato, di cui veniva richiesto di essere il più alto rappresentante.
In verità, poté assolvere presto e bene anche questo compito già un mese dopo l’elezione, proprio il 2 giugno, con la rassegna del picchetto d’onore e, l’anno successivo, firmando la legge che proclamava la data Festività nazionale a tutti gli effetti. La norma non disciplinava anche la sfilata che, però, si svolse e diventò parte essenziale della ricorrenza.
Chi non ricorda le strade vuote perché la gente, grandi e piccoli, si affollava intorno ai pochi televisori in bianco e nero per emozionarsi, tutti insieme, al passaggio delle penne nere, alla marcia delle truppe, ai ghirigori degli aerei, all’applauso unanime dei politici sul palco d’onore?
Poi, qualcosa cambiò e i decenni di pace richiesero una generale e profonda cultura proprio della pace, cosicché finì che l’esposizione degli uomini e dei mezzi di difesa – di cui nessuno Stato può far a meno – fosse interpretata quasi come nostalgia di guerra e in molti si convinsero che si poteva soprassedere.
Fino al punto che la ricorrenza venne in sostanza declassata, perché la “festa” , con una legge del 1977, venne rimandata ad un giorno festivo già di per se, cioè la prima domenica successiva.
A farne abbassare i toni furono anche le più o meno giustificabili esigenze di risparmio e quando la domenica 4 maggio del 2000, ai Fori Imperiali, si radunarono più di centomila persone, Ciampi disse “Voglio che questa data diventi la festa degli italiani” e Sergio Mattarella, che allora da ministro della Difesa gli era a fianco sulla tradizionale Flaminia scoperta, gli rispose “Ma possibile che nessuno ci ha pensato prima? E’chiaro che la gente ha bisogno di questi eventi per riconoscersi, per avere orgoglio di sé”.
Capirono che era ora di tornare alla solennità piena del rito e il 14 novembre la legge che ripristinava il 2 giugno come festa nazionale fu approvata definitivamente dalla Camera.
Ne fa un racconto preciso ed emozionato Paolo Peluffo che, di Ciampi, fu stretto collaboratore e determinante nel “ricostruire un sistema coerente di ritualità civili della Repubblica”.
Non ci era riuscito neanche Pertini, che – gli diede atto Ciampi – fu “il primo ad avere il coraggio di tornare a parlare di patria, di baciare il Tricolore”, né Cossiga che istituì la bandiera presidenziale che svetta sul Torrino del Quirinale.
Il segretario generale dell’epoca di Pertini, il potentissimo Antonio Maccanico, nel suo diario annota: “4 giugno (domenica) 1983 parata militare lunga e noiosa”. L’anno dopo: ”il 2 giugno a Porta San Paolo per la liberazione di Roma”, ma il 3 “sfilata ai Fori imperiali e grande soddisfazione del Presidente”.
Anche Nenni, capo dei socialisti, repubblicano da sempre, scrisse il 2 giugno 1967 “Ho festeggiato il ventunesimo avvento della repubblica partecipando a un banchetto monstre dei socialisti romani”.
Nel ’68 “disertò come d’abitudine per le cerimonie ufficiali”. Sconsolato, il 2 giugno 1969: “Ventitreesimo della Repubblica. Non ho il tempo né per le rievocazioni né per le delusioni”. Si rifarà l’anno successivo: “Celebrato a Bari il ventiquattresimo anniversario della vittoria repubblicana del 2 giugno 1946. Ne ho approfittato per ricordare agli immemori e ai giovani quali terribili condizioni affrontammo…Non ho nascosto che la Repubblica non ha mantenuto le promesse”, dandone la colpa anche al Centrosinistra.
Nel 2025 si è ancora festeggiato con la solenne sfilata militare, l’omaggio al Milite Ignoto e il canto dell’Inno nazionale che sprona i fratelli d’Italia con l’immagine dell’elmo di Scipio. Ma la Repubblica, per Costituzione, “ripudia la guerra”.