Negli ultimi mesi, il panorama della ricerca e dell’istruzione superiore negli Stati Uniti ha mostrato segni di instabilità senza precedenti, segnando una potenziale svolta nella geografia globale del talento scientifico. La crescente politicizzazione dell’ambiente accademico americano alimentata da tagli ai finanziamenti, retoriche anti-scientifiche e ingerenze ideologiche, ha aperto una finestra di opportunità per l’Europa e per altri attori strategici. Il presidente dell’Accademia Australiana delle Scienze ha parlato apertamente di un’“occasione urgente e senza precedenti” per attrarre le menti più brillanti in fuga dagli Stati Uniti. Anche il presidente della Nanyang Technological University di Singapore ha definito il momento attuale una “golden opportunity” per consolidare il ruolo delle università asiatiche come nuovi centri scientifici globali.
In Europa, la Germania, attraverso gli istituti Max Planck, ha attivato un programma transatlantico di reclutamento, mentre la Spagna si è mossa con il programma Ramón y Cajal, che propone percorsi chiari per l’integrazione di ricercatori stranieri. Anche la Francia ha avviato due iniziative: da un lato, Emmanuel Macron ha lanciato il programma “Choose France for Science”, offrendo asilo scientifico a ricercatori statunitensi in cerca di un ambiente più stabile; dall’altro, è stata promossa l’iniziativa Safe Place for Science. In Belgio, la Vrije Universiteit di Bruxelles ha istituito una linea diretta per accademici americani interessati a trasferirsi. Per decenni, la “fuga di cervelli” è stata unidirezionale verso gli Stati Uniti. Oggi, per la prima volta dal secondo dopoguerra, epoca in cui gli Alleati si contesero gli scienziati tedeschi nell’operazione Paperclip, si assiste a una vera competizione per attrarre capitale umano proveniente proprio dagli USA. La causa scatenante di questo fenomeno è un clima politico e culturale percepito da molti accademici americani come ostile alla libertà scientifica. Il congelamento di oltre 2 miliardi di dollari in fondi per Harvard, i tentativi dell’amministrazione Trump di smantellare programmi per la diversità, le nomine di figure controverse a ruoli scientifici come Robert F. Kennedy Jr. e i drastici tagli al bilancio del National Institutes of Health (NIH) hanno generato un senso diffuso di precarietà.
Molti studiosi, soprattutto nei settori più esposti alla polarizzazione ideologica come il cambiamento climatico, la salute pubblica e la giustizia sociale, stanno cercando nuove sponde all’estero. L’Europa si trova così davanti a una “finestra strategica” che va oltre la solidarietà: è un’opportunità concreta per rafforzare il proprio ecosistema scientifico in un’epoca di competizione internazionale serrata, in particolare con la Cina. Ma attrarre talenti richiede infrastrutture solide e visione strategica. Paesi come i Paesi Bassi hanno già investito per garantire condizioni favorevoli al reclutamento accademico, riconoscendo che “i grandi scienziati valgono il loro peso in oro”. L’Unione Europea, nel suo insieme, ha messo in campo strumenti come le Azioni Marie Skłodowska-Curie (MSCA), la rete EURAXESS e i nuovi progetti Horizon Europe, pensati per costruire ecosistemi scientifici competitivi e internazionali.
Tuttavia, i rischi di un “effetto attrazione temporaneo” legato solo al disincanto statunitense restano: servono stabilità, finanziamenti a lungo termine e regole trasparenti per garantire un’accoglienza sostenibile. In parallelo, anche paesi come l’India (Ramanujan Fellowship), la Corea del Sud (NRF Brain Korea 21) e la Russia (Mega Grants Program) hanno costruito programmi mirati per attrarre talenti della diaspora o ricercatori stranieri in settori strategici.
Nessuno di questi paesi ha portato questa logica a livello sistemico e strategico come la Cina.
Essa ha trasformato il reclutamento scientifico in una leva di potere geopolitico. Programmi come il Thousand Talents Plan o il più recente Young Thousand Talents sono stati al centro di indagini e controversie, in particolare negli Stati Uniti, collegati al concreto rischio di trasferimento illecito di tecnologie avanzate, incluse quelle dual-use (ovvero tecnologie che possono avere impiego sia civile che militare).
Il governo cinese finanzia, gestisce e coordina centinaia di piani di talento, operativi a livello centrale e provinciale. I candidati ideali sono ricercatori già attivi in università e laboratori d’élite in Occidente, spesso impegnati in progetti finanziati con fondi pubblici americani o europei.
Una volta reclutati, i partecipanti a questi programmi firmano contratti vincolanti: sono tenuti a trasmettere i risultati della ricerca solo alle istituzioni cinesi, a non condividerli con le loro strutture d’origine senza permessi specifici, e a reclutare altri colleghi nello stesso circuito. Il mantenimento dell’impiego nel paese ospitante non è ostacolato, anzi, viene favorito proprio per continuare ad avere accesso diretto a dati, brevetti, pubblicazioni pre-print e grant competitivi. In cambio, ricevono compensi elevati, finanziamenti per la ricerca, ruoli in comitati scientifici locali, agevolazioni fiscali e immobiliari. Tuttavia, questi incentivi costituiscono anche strumenti di controllo, soprattutto quando si tratta di settori strategici come l’energia, l’aerospazio, le biotecnologie, l’intelligenza artificiale e la fisica nucleare.
Questa dinamica ha sollevato forti preoccupazioni in Occidente, non solo per il rischio di spionaggio industriale o accademico, ma anche per la creazione di reti di influenza che sfuggono ai meccanismi di trasparenza delle istituzioni democratiche. A differenza dei programmi europei o americani, i piani cinesi raramente sono accompagnati da standard di etica della ricerca, obblighi di disclosure pubblica o revisioni paritarie. Per questo motivo, gli Stati Uniti e l’Unione Europea stanno rivalutando il modo in cui le collaborazioni internazionali vengono tracciate, regolate e finanziate. La sfida del futuro non sarà solo quella di trattenere i cervelli migliori, ma anche di proteggere la propria autonomia tecnologica in un contesto di crescente interdipendenza e competizione.
Il Commissario europeo per la ricerca, Ekaterina Zaharieva: “Credo davvero che l’Europa possa e debba essere il miglior posto al mondo in cui fare scienza e ricerca. Perché senza libertà, la conoscenza non può veramente crescere. È semplice. In quanto culla dell’Illuminismo e della Rivoluzione Scientifica, l’Europa ha una responsabilità storica nel difendere la libertà accademica.”
Oggi più che mai, difendere la libertà accademica significa anche impegnarsi attivamente per attrarre talento. La Cina lo fa da tempo: l’Europa è pronta a fare lo stesso? Vogliamo davvero lasciare questo vantaggio a Pechino o a qualcun altro, con quali eventuali rischi correlati?