Che la Democrazia sia “la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora” lo disse per primo Wiston Churchill nel 1947 e oggi lo ripetiamo tutti pedissequamente; sia quelli che preferiscono, non tanto nascostamente, le nuove Autocrazie orientali sia quelli che credono ancora nella vecchia Democrazia occidentale.
Del resto se si leggesse “La Guerra del Poleponneso” di Tucidide (politicamente, un democratico moderato con forti riserve verso le plebi) scopriremmo che anche gli inventori di questa forma di governo ne vedevano chiaramente i limiti. In estrema sintesi potremmo dire che il pericolo maggiore veniva, allora – come ora – dagli oratori demagoghi e dalla facile adesione ai loro “sfavillanti artifici di eloquenza” da parte di coloro “affascinati fino alla schiavitù dal singolare e dallo straordinario, colmi di sprezzante noia per ciò che è consueto e regolare”.
In verità, l’analisi di Tucidide evidenziava anche una possibile “trappola” insita nelle lotte tra stati che si contendevano la supremazia (del mondo): quella dell’ineludibile guerra finale tra di essi. Guerra combattuta sul campo, fatta di cittadini soldati che si scontrano fisicamente con le falangi nemiche. Molto più ricca di morti e distruzioni di quella ibrida così magistralmente descritta nel testo.
Ovviamente la “guerra ibrida” era quella d’allora, senza le tecnologie odierne, ma ugualmente ricca di spie, traditori, demagoghi, sostenitori radicalizzati, quinte colonne, agenti di influenza, kompromat, ricatti e fake news che, come oggi, lavoravano alacremente per spostare le opinioni e i voti dei cittadini nelle agorà e nelle città-stato greche. La libertà di opinione e di voto, seppur allora consentita a fasce ristrette, non esistendo quella di stampa, erano i bersagli naturali.
Certo, se ad Atene un ateniese avesse apertamente sostenuto, adottandone addirittura le stesse parole, le tesi di Sparta o avesse lavorato pubblicamente per demolire i patti tra alleati, sicuramente un ostracismo o una tazza di cicuta sarebbero state prontamente comminate.
Se oggi si abbandonasse la retorica fittizia imposta mediaticamente dalla divisione acritica e polarizzata in bolle di Destra e Sinistra, per cui se si è dell’uno o dell’altro segno tutto quello che fanno i leader di riferimento va bene in e per tutto il mondo, forse l’analisi si farebbe – come quella di Tucidide – più acuta.
Sicuramente Trump ha vinto le elezioni ed è per la seconda volta Presidente degli USA, la più grande potenza mondiale; non può disattendere, non solo per ego, le aspettative della maggioranza che ha creduto a quelle che qualcuno definisce “sbrasate”, ma che comunque sono parole d’ordine estremamente chiare oltreché accattivanti meme.
I suoi elettori, in gran parte – specie quelli sperduti nelle campagne chilometriche degli States – vogliono veramente essere rappresentati da un uomo forte che ne incarni la voglia di riscatto, anche violento, contro una cultura e una realtà troppo sofisticate e aperte ai diversi, agli stranieri, inclusi gli europei. Nel West contava la violenza: alla fine anche nei film di Hollywood i buoni sparano meglio e più velocemente dei cattivi.
Se l’uomo al comando è anche ricco, telegenico, stravagante e attorniato da belle donne, il fascino aumenta perché i segni del successo sono più evidenti.
C’è poco da meravigliarsi se Trump, che incarna ed è questo personaggio, lo metta in scena brutalmente anche con Zelensky, incurante di metterne la vita nelle mani di Putin. In effetti, qualcuno spiega, che queste sono “giuste pressioni” per indurlo più in fretta alla ragione e, ugualmente lo sono: organizzargli contro meeting di oppositori e sospendere per una settimana sia l’invio di armi che il supporto d’intelligence, nonostante gli accordi politici e i contratti commerciali in essere.
Questo è pragmatismo anti-woke anche se da Destra risuonano le voci della Le Pen e di Walesa che sottolineano “brutalità” e tradimento dei Patti. Non è però né tradimento né brutalità, ma “contrarian pensiero”, anzi “negoziazione transazionale”, come spiega l’inviato speciale statunitense per l’Ucraina, il Tenente Generale a riposo Keith Kellogg, “E’ un po’ come colpire un mulo sul muso. Catturi la sua attenzione”.
Trump, come Coriolano coi Volsci, preferisce – in attesa forse di sparargli contro i suoi dazi – allearsi ai Russi e non combatterli, anzi mette ai vertici della sua Amministrazione dei filo-russi. Del resto lui crede in Putin che ha tutte le carte in mano. Per Donald l’Europa e non solo l’UE, sono colonie da sfruttare, stati liberati irriconoscenti che hanno “fregato” gli USA; non gli interessano più come alleati, ma come merce di scambio con Russia e Cina.
Nessuno pensi che per lui, i cui nonni erano da una parte “scozzesi” e dall’altra “tedeschi”, possa contare il richiamo delle “origini europee”. Se per andare avanti deve stracciare i patti che sancivano le alleanze con i Paesi europei, lo fa e lo farà tranquillamente e senza remore. Così come ha fatto per il “Memorandum di Budapest”, firmato il 5 dicembre 1994, che sancì la consegna di 1.900 bombe nucleari da parte dell’Ucraina, allora terza potenza atomica al mondo, alla Federazione russa in cambio del riconoscimento dei suoi confini. Accordo firmato e come garanti, anche da USA e Gran Bretagna.
Garanzie che, a ben guardare dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, sono state il tallone d’Achille degli USA, un paese che nonostante la sua potenza da allora non ha mai più vinto una guerra, lasciando, con o senza armistizi, i suoi alleati alla mercè dei nemici che sino a pochi istanti prima avevano combattuto assieme. Corea, Vietnam, Somalia, Libia, Iraq e Afghanistan sono i casi più eclatanti. E chissà ora, forse, Taiwan.
Per questo è essenziale che l’Europa – superando non solo gli stereotipi ma il retaggio delle sanguinose e fratricide guerre del passato – prima che venga distrutta dai due potenti “nemici-amici”, si svegli e dia forma anche alla potenza militare e politica di una federazione di 27 stati che tutti assieme per popolazione, ricchezza, capacità industriale e militare eguaglierebbe sia quella degli USA che della Russia. Anche se lo squilibrio atomico resterebbe nonostante l’apporto di Francia e Gran Bretagna che hanno assieme solo 500 testate nucleari.