Si avvicina a grandi falcate il tradizionale “autunno caldo”, il periodo dell’anno in cui tutti, scontenti per essere tornati dalle ferie, cominciano a questionare con e contro chiunque. E’ il momento delle decisioni sul Bilancio, si cominciano a “tirare i conti”, le “tute blu” scendono in piazza (e non solo loro…).
No, non voglio fare un pezzo sulla politica. Vorrei andare a fondo e capire perché si chiamano “tute”. Eh si, vi siete mai chiesti da dove deriva la parola “tuta”?
Premetto che, nell’isola dove sono confinato, la “tuta” nemmeno sanno cosa sia. Qui si chiama “canadese”. Ma, ironia della lingua, nel mio periodo pugliese, parlando di “canadese” ti veniva immediatamente servita una birretta.
Quindi birra -> canadese -> tuta. Strani passaggi linguistici.
La birra. Non è univoca la spiegazione dell’origine del termine “canadese” usato in Puglia (non dappertutto, in realtà) per la bottiglia di birra da 0,33.
La versione 1 richiama un errore di stampa sulle etichette della birra Raffo: anziché “Birrificio Raffo – Taranto”, il tipografo distratto tirò una stampa con “Birrificio Raffo – Toronto”. Nel riferimento web tarantino da cui ho reperito questa informazione, sono citate altre due suggestive spiegazioni, probabilmente molto romanzate…
La versione 2 cita invece la “bottiglia canadese”, come parte della dotazione bellica di supporto per i militari canadesi durante la II Guerra mondiale (sic Dizionario online Hoepli/Repubblica).
La canadese sarda. Il secondo link riporta anche un ulteriore significato per “canadese”, che si avvicina molto all’uso sardo del termine: descrive un capo di abbigliamento (un maglione), anche se, in effetti, in Sardegna, il termine attuale descrive la classica tuta sportiva.
La tuta. E qui arriviamo al punto. La “tuta”, intesa come capo di abbigliamento da lavoro e con questa denominazione, è davvero fatto recente, e la sua “invenzione”, tanto per cambiare, si deve ad un italiano, il toscanissimo Ernesto Michahelles, detto Thayaht (1893-1959).
Insieme al fratello Ruggero Alfredo, detto RAM, fu fecondo e attivissimo membro del movimento futurista e, nella consueta poliedricità degli artisti dell’epoca, fu scultore, pittore, fotografo, disegnatore, architetto, inventore e orafo, ma la sua imperitura “dimenticata” memoria risiederà nell’invenzione della “TuTa”, capo d’abbigliamento pratico, economico e semplice da dedicare allo svolgimento del lavoro e, perché no, allo sfoggio dell’ultima moda futurista, sposando e reinterpretando la teoria del “vestito antineutrale” di Giacomo Balla (nella foto, il “manifesto” e una vera giacca di Balla, con dentro una mia cara amica come modella, durante una visita privata a Casa Balla a Roma tanti anni fa).
Anche in questo caso, l’origine del nome si perde nella leggenda e nelle varie ipotesi, non risultando nessuna spiegazione da parte dell’artista.
Thayaht concepì “il più innovativo, futuristico abito mai prodotto nella storia della moda italiana”, disegnando, da un singolo rettangolo di tessuto di cotone, un capo a forma di T, con sette bottoni e una cintura, unisex, senza sfridi, uno “zero waste” antesignano delle moderne tendenze, ed economico, per materiali e realizzazione.
Contrapponendosi a colletti, cravatte, polsini inamidati e colori smorti o funerei, la visionaria tuta Thayaht forniva pronto all’uso un capo pratico per il lavoro, ma anche una modaiola alternativa, elegante ma “leggera”, al grigiore e al rigore della moda del tempo.
La grande semplicità di realizzazione e, soprattutto, l’intelligente uso che l’artista faceva dei “cartamodelli”, consentivano la produzione casalinga del capo che, unitamente alla diffusione anche all’estero, ne fecero un vero e proprio successo del movimento antiborghese.
La Storia dimentica le persone, ma a volte è generosa con le loro invenzioni, a disposizione di tutti.
Chissà cosa penserà Thayaht della “tuta gold” e dei cinque cellulari…