In una stanca serata di febbraio, l’italiano generico medio che ancora guarda la televisione generalista ha la consunta consuetudine di guardare Sanremo, autodichiarato festival della canzone italiana. Un evento che nella miglior tradizione della televisione pubblica nasce come pezzotto di qualcos’altro, cioè del ben più prestigioso ed artisticamente valido Festival di Napoli.
Ora che decenni sono passati dal trasferimento morale in terra ligure di ciò che resta della musica nazionale e una volta colta e profonda, ciò che ne resta è il catafalco del tempo che fu, con liturgie programmate cui l’audience risponde con lo stesso entusiasmo delle bizzoche che ad ogni chiamata del sacerdote rispondono ora pro nobi in un latino discutibile.
Il mondo è andato avanti rispetto al Festival ed al suo grembo ospitante, una RAI che ormai ha le fattezze dell’ospite involontario, dal ventre del quale Sanremo esce una volta all’anno, come l’Alien di buona memoria. I servizi streaming la fanno da padrone per l’intrattenimento, e specie nelle giovani ed impazienti generazioni del contenuto on demand, sono rari quelli che hanno voglia di sciropparsi dieci minuti di pubblicità ogni quattro o cinque canzoni.
Ma comunque il Festival, come il corpaccione televisivo che parassita, si regge sul denaro che quell’esproprio ex lege chiamato canone opera ai danni degli involontari cittadini. E i soldi di quell’esproprio distribuisce in cachet da decine di migliaia di euro a personaggi che avrebbero probabilmente difficoltà a trovare lavoro altrove, in quanto senza talento, poco capaci o bolliti.
Saltata per autodifesa la prima serata, per dovere di cronaca mi sono accodato alla seconda, esponendomi al caravanserraglio di varia umanità che si è alternato sul palcoscenico. Come al solito, le reazioni dello spettatore medio si sono divise tra “e questo chi è?” e “ma questo è ancora vivo?”.
Chi fossero i membri della folla di variegati personaggi, che andavano dal gruppo crinocromatico all’emo vestito cinque taglie più grandi, provvedevano altri personaggi dello stesso tipo. Quest’anno, infatti, si è pensato di far presentare – absit iniuria verbis – i cantanti da altri cantanti. Tizio veniva presentato da Caio che poi presenterà Tizio. L’imbarazzo dei Cai e dei Tizi, già poco valenti con un microfono tra le mani, nel dire le quattro parole necessarie, la dice lunga sul sistema scolastico nazionale.
L’unico raggio di luce è venuto dalla ormai matura Giorgia, che da par suo, con la voce stellare che la contraddistingue pure a mezz’età arrivata, ha scacciato sul fondo buio del Teatro Ariston i pipistrelli tatuati che avevano imperversato fino a quel momento. Ho detto un raggio di luce, ma in realtà due, anche se il secondo è malinconico.
Giovannino Allevi, anima bella e cuore di bambino, ha fatto tremare i cuori di affetto con il candido racconto della sua lotta contro il male che lo attanaglia. Le sue dita incollate al piano, in mezzo a qualche tenera incertezza, sono valse il prezzo dell’insulsaggine precedente e seguente. E accanto alla tenerezza, allo spettatore consapevole resta la triste gioia di averlo visto esibito come un monumento al dolore, mentre gli oscuri contafagioli calcolano quanto share sono valsi i suoi minuti sul palco.
Passate le folle improbabili, passati i raggi di luce e le pubblicità fiume che ti ricordano perché sono anni che non guardi più la televisione generalista, arriva l’annuncio di Romagna mia. È troppo anche per il volenteroso giornalista, che sotto la minaccia del fantasma del fu Raul Casadei e delle balere al lambrusco di cinquant’anni fa, decide che è il tempo di scappare nuovamente verso il sicuro rifugio dello streaming.
E bene ha fatto, perché proseguire nella visione della serata avrebbe comportato la visione del mitico John Travolta ormai pelato, che con evidente controvoglia e pensando al cachet si esibisce in un Ballo del qua qua che è un monumento al cringe. Sic transit gloria Saturni Noctis Febris.
Netflix, grazie di esistere.