I social network sono un passatempo che consente di mantenersi in contatto con gli amici, di “conoscere” altre persone almeno virtualmente, di fruire di contenuti multimediali, di dar luogo ad iniziative o di partecipare a quelle organizzate da altri.
Qualcuno li identifica come un buon rimedio alla solitudine o alla noia, qualcun altro – invece – addebita proprio a loro la chiusura verso l’esterno e una modifica delle relazioni orientata ad una dimensione immateriale che devasta i rapporti interpersonali.
Alla base del successo di queste piattaforme c’è la loro gratuità. Il fatto che non si paghi induce gli utenti di Internet ad accedere a tanti Luna Park digitali senza alcuna esitazione.
Nessuno (o quasi) si chiede il perché del mancato pagamento di un biglietto. Quei pochi che si pongono una domanda del genere non sempre trovano una risposta plausibile.
Il ticket di ingresso, in realtà, viene pagato inconsapevolmente da chi accede nel corso dell’utilizzo di queste caleidoscopiche opportunità di intrattenimento. In termini pratici, il prezzo per utilizzare i social network è costituito dalle informazioni personali che gli utenti forniscono ininterrottamente a chi gestisce questi sistemi.
C’è chi pensa di beffare i guardiani all’ingresso, fornendo informazioni imprecise o fantasiose al momento dell’iscrizione. L’utilizzo di un nome non corrispondente al vero o l’indicazione di generalità fasulle non sono certo garanzie di anonimato per l’utente che – poco alla volta – è destinato ad essere conosciuto dai social network molto meglio di quanto si possa immaginare.
Le piattaforme non hanno fretta di sapere tutto sul conto di chi se ne serve. Accettano volentieri le bugie che vengono raccontate al momento dell’adesione e i metodi di verifica sono poco efficaci. Ne sanno qualcosa i giovanissimi che trasgrediscono le regole dell’età minima prevista per accedere a questo genere di siti web. Basta indicare una data di nascita diversa da quella veritiera e con un paio di clic è possibile by-passare il controllo formale ed entrare in un mondo che sarebbe vietato a chi non ha superato la soglia di anni stabilita.
Come il pifferaio di Hamelin, i social network incantano tutti e con la loro melodia trascinano in un vortice di emozioni una marea di persone che non sanno cosa sta effettivamente accadendo.
Nessuno si prende la briga di leggere con pazienza le “condizioni di utilizzo”, l’obbligatoria “informativa” in tema di privacy o altri documenti che descrivono il rapporto che l’utente stabilisce con il gestore di questo o quel “social”.
Fare clic su “accetto” è una delle azioni più fulminee che chi adopera Internet impara a fare fin dal proprio esordio online.
Quel banale gesto – con il mouse se si è al computer, con il polpastrello se si usano smartphone o tablet – è l’interruttore con cui si avvia la macchina dei social che comincia a divorare le informazioni personali del nuovo arrivato.
La cordialità dell’interazione tra social e iscritto è apparentemente rassicurante. Poco alla volta si costruisce un rapporto di fiducia e ci si sente a casa senza capire di essere prigionieri in un universo la cui economia non conosce solo soldi o criptovalute, ma si basa prevalentemente sul commercio di informazioni personali.
Forse, se si avesse maggiore coscienza del funzionamento di questi “pianeti” telematici, il nostro comportamento sarebbe un pochino più cauto.
Nessuno regala niente, tanto meno chi pone in essere ciclopiche iniziative che garantiscono proporzionali profitti. Il prezzo di ingresso siamo noi, la moneta è l’insieme delle informazioni che ci riguardano, il business poggia sulla cessione dei nostri dati personali.
Per rendersene conto è sufficiente frenare l’entusiasmo per certe novità tecnologiche e prendere atto di quel che quotidianamente mettiamo nel piatto di chi si sfama di quel che sa di noi.