Ormai le cronache sono sempre più impostate secondo logiche di “count disease”.
Senza andare troppo indietro nel tempo, sono ancora vivi nella mente di tutti lo stillicidio del conteggio dei deceduti durante la pandemia, quello poco attendibile, ma non per questo meno drammatico, delle perdite subite dai contendenti durante il conflitto in Ucraina tutt’ora in corso, l’angosciante morte della bambina a seguito della caduta di un aereo della nostra Pattuglia Acrobatica, la tragedia dei giovani operai travolti dal treno a Brandizzo, l’esito infausto del terribile incidente del bus precipitato dal cavalcavia di Mestre.
Oggi le tristi numeriche riportate sui media riferiscono gli eventi che stanno interessando la Striscia di Gaza ed i dati già impressionanti in valore assoluto lo diventano ancor di più considerando il tutto sommato ristretto bacino di popolazione che li esprime.
Ma al di là delle trite formule giornalistiche, immancabilmente farcite da termini quali orrore, sgomento, profondo dolore, raccapriccio, noi cosa proviamo realmente?
Intendo non cosa pensiamo di questi drammatici fatti e delle povere vittime, ma cosa “sentiamo” nel nostro intimo, nella nostra profonda coscienza?
Sentiamo davvero quel dolore, quello sgomento, quel raccapriccio abbondantemente citati nei corsivi?
Nel leggere questi lugubri elenchi proviamo lo stesso moto emotivo che proveremmo trovandoci nella realtà al cospetto di un cadavere dilaniato da una morte violenta, cadavere magari di una persona conosciuta o peggio ancora di un bambino?
Credo di no e questo non per scarsa fiducia nella sensibilità nel genere umano.
Sono infatti certo che tutti razionalmente riteniamo i fatti che ho citato gravi e dolorosissimi, ma una cosa è pensare certi stati d’animo, altra cosa è provarli.
Le sensazioni che ci pervadono leggendo di un corpo mutilato sono diverse da quelle che proviamo soccorrendo una persona gravemente ferita in un incidente.
Quindi siamo tutti dei cyborg che possono leggere di qualunque atrocità rimanendo emotivamente distaccati?
Effettivamente in linea di massima e con l’eccezione di qualche particolarissima sensibilità individuale, avviene proprio questo e non perché ormai siamo diventati tutti aridi, cinici ed indifferenti all’altrui dolore.
L’aforisma che ha dato il titolo a questo articolo è attribuito (pare erroneamente) a Stalin.
Che l’autore di questa affermazione sia Stalin o no ha poca importanza: maggiore rilevanza ha invece il fatto che in psicologia sociale questo approccio sia codificato nella teoria nota come scope neglect.
Molto semplicemente la nostra mente non sarebbe fatta per i grandi numeri perché non può attivare abbastanza neurotrasmettitori per provare emozioni mille volte più forti del dolore di una singola morte.
Quindi il dolore e lo sgomento profondi e sinceri che proviamo al cospetto di una singola morte non sono “replicabili” e amplificabili per mille o un milione di volte.
Queste cifre restano pertanto una pura astrazione che certamente condanniamo a livello cognitivo per i valori condivisi e convissuti che hanno guidato la nostra crescita e la nostra formazione, ma che non viviamo emotivamente come l’elevazione a potenza del singolo episodio luttuoso cui potremmo assistere.
Al riguardo sono stati condotti diversi esperimenti di psicologia sociale.
Ad esempio è stato somministrato un questionario ad un campione rappresentativo di soggetti suddivisi in tre gruppi chiedendo a ciascun gruppo quale maggior esborso di tasse sarebbero stati disposti ad affrontare per salvare rispettivamente 2.000, 20.000 o 200.000 esemplari di una certa specie animale.
La risposta – conosciuta come Stated Willingness-to-Pay (SWTP) – è stata di una media di 80 dollari per il gruppo di 2.000 animali, 78 dollari per 20.000 animali e 88 dollari per 200.000 animali (Desvousges et al., 1993).
Questo fenomeno noto appunto come scope insensivity o scope neglect confermerebbe che il nostro cervello risponde in modo più forte di fronte a situazioni che sappiamo per certe: più c’è incertezza, meno siamo in condizione di agire.
Per lo stesso principio la morte, da esperienza soggettiva, è andata via via trasformandosi in numero, passando da tragedia personale a mera statistica edulcorando così la sofferenza mediante la riduzione della singola vittima a una categoria.
Queste dinamiche sono ben note ai reporter di guerra che generalmente si astengono dal ritrarre distese di cadaveri, affidandosi piuttosto alla forza dirompente di immagini individuali.
I miei coetanei ricorderanno infatti la foto della bambina vietnamita nuda che corre terrorizzata con il braccio sinistro ustionato dal napalm o quella in cui un generale sudvietnamita spara in testa a un prigioniero.
Ebbene quelle due singole immagini scossero profondamente l’opinione pubblica mondiale, molto più del milione e mezzo di morti provocati da quel conflitto, riportando di fatto la questione dal piano delle categorie a quello umano.
Temo però che stavolta una fotografia, per quanto di forte impatto emotivo, non basterà ad accelerare la fine di ciò che si sta scatenando sulla striscia di Gaza.