Il colonnello della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella è stato assolto in appello per non aver commesso il fatto dall’accusa di corruzione mossagli nel 2014 dal noto magistrato Henry John Woodcock, in collaborazione con i pubblici ministeri Vincenzo Piscitelli e Celeste Carrano.
Secondo le tesi dell’inchiesta Last door, che convolse senza esiti l’ex vicecomandante della Guardia di Finanza Emilio Spaziante, e il vicecomandante in carica nonché attuale governatore della regione Basilicata Vito Bardi, Mendella avrebbe accettato dazioni in denaro ed altre utilità per ammorbidire i controlli a favore delle aziende dei fratelli Pizzicato, per il tramite del commercialista Pietro Luigi de Riu.
Un impianto accusatorio che all’epoca delle contestazioni portò all’arresto ed alla detenzione del colonnello Mendella, nel frattempo diventato comandante provinciale della Guardia di Finanza di Livorno, per oltre quattro mesi presso il carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, in attesa del deposito delle motivazioni del provvedimento di arresto. A casa, dove fu poi trasferito agli arresti domiciliari, lo aspettavano la moglie ed una figlia di cinque anni che si trovò improvvisamente privata del padre.
La Guardia di Finanza sospese senza stipendio il suo ufficiale e, seppur con presunzione di innocenza ed in attesa di giudizio, marcò la propria distanza attraverso le parole del suo comandante generale, Saverio Capolupo, il quale dichiarò in un’intervista a Repubblica che “Nella Finanza non c’è spazio per i ladroni”.
La stampa dell’epoca, pur con tutti i condizionali del caso, trattò la vicenda parlando di “sistema corruttivo” e chiedendo, come nella suddetta intervista a Repubblica a firma di Carlo Bonini, “Quanti altri colonnelli Mendella, quanti altri generali Spaziante e Bardi ci sono nella Guardia di Finanza?”. Il Corriere della Sera, in un articolo a firma di Fiorenza Sarzanini, rincarò la dose titolando Gdf, la paga di Mendella, e raccontando come il colonnello avrebbe ricevuto “30 mila euro al mese (che) non bastavano. E allora il colonnello della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella si faceva pagare anche le vacanze in Sardegna, oppure le gite in barca a Capri con i calciatori del Napoli”.
Con nessun condizionale, ma in tono affermativo, anche Il Sole 24Ore riportò la vicenda, scrivendo “Vacanze gratis in Sardegna, feste in barca con i vip, case al mare e in montagna per un valore quasi di un milione: era una vita dorata quella che conduceva il colonnello della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella”.
In nove anni di lunga battaglia giudiziaria, il colonnello ha sempre protestato la propria completa estraneità, anche in presenza di una prima sentenza di condanna, che viene oggi ribaltata dal processo d’appello. A rafforzare la sua tesi, il rifiuto di avvalersi dei termini di prescrizione, disponibili già da due anni, ma inaccettabili per un uomo innocente. Molti se ne sarebbero forse avvalsi, per chiudere la questione, ma una coscienza pulita non ammette compromessi.
Oggi che l’iter processuale regolare si chiude – un ricorso in Cassazione da parte della Procura appare remoto – Mendella può ritornare a testa alta tra le fila della Guardia di Finanza, e forse incrociandolo nei corridoi più d’uno dovrà abbassare gli occhi.
La vicenda del colonnello Mendella ricorda in maniera singolare quella di un altro alto ufficiale della Guardia di finanza, il colonnello Raffaele de Chiara, comandante del Nucleo di Polizia Tributaria di Ascoli ed anch’egli avviato ad una luminosa carriera. Quest’ultimo, sempre nel 2014, fu accusato dalla procura di Ancona di una serie di reati corruttivi, dei quali è stato completamente prosciolto nel 2020. Diversamente dal collega, De Chiara ha deciso di lasciare la Guardia di Finanza ed esercitare la professione privatamente. Il Corpo lo ha reinserito retroattivamente nel sistema delle promozioni ed è stato riconosciuto vittima del dovere.
Tirando le somme di tutte le vicende che abbiamo raccontato, diverse domande rimangono inevase.
Partiamo dalle più ovvie, per le quali tristemente si conoscono già le risposte. Innanzitutto, i giornali ed i giornalisti che hanno raccontato la storia di questo servitore dello Stato chiederanno scusa – e magari risponderanno – di quanto pubblicato? Il magistrato Henry John Woodcock ed i suoi collaboratori risponderanno in qualche modo delle accuse risultate processualmente false, e che hanno distrutto la vita, l’onorabilità e la carriera di un uomo, sottraendo allo Stato per un decennio uno dei suoi più validi ufficiali?
Accanto a queste, altre domande si affacciano alla mente, e richiedono forse un approfondimento nelle sedi opportune. Non è una circostanza singolare che nello stesso intorno di tempo, il 2014, due vicecomandanti della Guardia di Finanza e due alti ufficiali del Corpo sano stati fatti oggetto di inchieste per reati simili? Che rapporti professionali esistevano tra di loro? Erano impegnati insieme nella conduzione di inchieste? Il loro allontanamento ha avuto effetti di dilazione o abbandono di qualche filone particolare d’indagine? Ed eventualmente, a carico di chi erano queste inchieste?
Domande cui spetterà ad altri dare una risposta, magari in Parlamento. Nel frattempo, nove anni di calvario meritano come epilogo qualche trafiletto sui giornali e un rapido passaggio al TG1.