Gliel’avevano chiesto gli americani? Non formalmente ma, ad esempio, il presidente della commissione esteri del senato, Arthur Vandenberg, mentre gli assicurava sostegno economico, si preoccupava: “Caro De Gasperi, chi ci garantisce che in futuro al governo ci sarà ancora lei?”.
L’Italia, dopo la guerra, era alla fame e De Gasperi, quando, il 10 agosto 1946, finì di parlare da ex nemico alla Conferenza di pace di Parigi, nessuno lo applaudì o gli strinse la mano. Nessuno, tranne il segretario di stato americano e lui capì che, di là dell’oceano, erano meno nemici e meno prevenuti degli altri, forse anche per la presenza, in USA, di tanti emigranti.
Gli obiettivi del viaggio furono, perciò, sia pratici ( il 31 gennaio 1946, il Commissario per l’alimentazione, Pietro Mentasti, aveva chiesto al consiglio dei ministri di ridurre da due chili a mezzo chilo la razione mensile di pasta e, in USA, l’italoamericano Fiorello La Guardia, a capo dell’UNRRA, faceva dirottare sui nostri porti navi cariche di grano), sia strategici: disporre delle risorse necessarie per la ricostruzione postbellica e, a Washington, era in preparazione il piano ideato dal generale a cinque stelle George Marshall: 17 milioni di dollari da investire nelle nazioni europee occidentali, le quali, peraltro, in quel momento non ci erano certo amiche. Ha scritto l’ambasciatore Sergio Romano: “De Gasperi non andò ad limina, per ricevere ordini dal governo americano, ma per capire fino a che punto non gli avrebbero fatto mancare un sostegno politico ed economico”.
Guido Carli – membro della delegazione al seguito – ha raccontato che “il momento più toccante fu quando, in un discorso alla Municipalità di New York, rassicurava sulla capacità di rinascere dell’Italia”, scegliendo la politica del libero mercato, non da tutti, peraltro, gradita in patria dove molti delle “classi dirigenti si erano formati in periodi di autarchia”.
Godibile un aneddoto di Carli: “Il cinegiornale inquadrò impietosamente De Gasperi che, ricevuto dal segretario al tesoro Snyder, un primo assegno di 50 milioni di dollari lo passava nelle mani dell’ambasciatore Alberto Tarchiani, che, in tutta naturalezza, lo riponeva nel portafoglio, accanto alle sue banconote”.
Dopo quel discorso che ottenne un grande consenso, De Gasperi “convocò una conferenza stampa e annunciò l’intenzione di escludere i comunisti dal governo”.
Così fu esplicitata la scelta atlantica e prima ancora americana dell’Italia. Gli Stati Uniti ne diventarono, infatti, l’alleato preferenziale. “Un rapporto speciale e sempre mantenuto” – disse Francesco Cossiga – tanto è vero che l’Italia stipulò anche un accordo bilaterale di collaborazione politico-militare diretto, in aggiunta a quello Nato.
Non fu facile far accettare l’adesione al Patto Atlantico. I socialisti di Nenni erano per bloccare ogni alleanza militare e Sandro Pertini proclamava: “nel caso vi fosse un conflitto, il nostro posto è a fianco del mondo del lavoro rappresentato dall’URSS”. Anche tra i cattolici la tradizione antimilitarista non aiutava, come pure una certa diffidenza reciproca per le vicende religiose che contrapponevano i cristiani apostolici romani ed i protestanti americani
Ci fu pure chi, addirittura in sede tecnica (l’ambasciatore Tarchiani l’8 settembre 1948), volle collegare il disegno difensivo al rifinanziamento del Piano Marshal. Ma, intanto, De Gasperi operava perché ci fosse un “coordinamento fra gli Stati europei e un modello di difesa comune i cui oneri siano prevalentemente sopportati dagli Stati Uniti”.
L’11 marzo 1949, l’invito formale degli americani a partecipare al Patto Atlantico fu accettato dal consiglio dei ministri, compreso Saragat in dissenso con la direzione del suo partito. Poi, firma il 4 aprile e ratifica della Camera il 2 luglio, quando fu respinta con 318 NO e 150 SI la lapidaria proposta di Palmiro Togliatti: “La Camera, convinta che la ratifica del patto Atlantico è contraria agli interessi della Nazione, passa all’o.d.g.”.
Il PCI accetterà il Patto Atlantico nel 1976 e il segretario Enrico Berlinguer preciserà in un’intervista a Giampaolo Pansa: “Mi sento più sicuro stando di qua”.
Se da un lato la partecipazione alla Nato giovò al peso dell’Italia sul piano internazionale, dall’altro, il legame “speciale” con gli USA determinò una forte e perdurante loro influenza non solo sulla politica ma anche sui modelli economici, sociali e culturali. Fino a far parlare di “sovranità limitata” (sudditanza?) e tanto da considerare retorica – e preoccupante per i candidati – la domanda se la nomina ai vertici dello Stato fosse (sia?) condizionata al benestare di Washington.
Cossiga – che degli interna corporis di qua e di là dall’Oceano era sicuramente esperto – diceva: “Se gli Stati Uniti pongono il veto, nessuno può ragionevolmente pensare di far da se” ma ricordava pure quando, a guerra fredda ormai lontana, nel 2007, durante un incontro informale “presso la dependance dell’ambasciata statunitense a Roma, il noto professore di Yale, Joseph La Palombara, essendo un italoamericano, esclamò alla romana: “Dell’Italia all’America non je ne po’ fregà de meno”.
Figuriamoci oggi che, a volare, sono i satelliti e… chi li commercia.