Herman Melville (New York 1819 – 1891) nel suo Moby Dick (1851), capolavoro della letteratura nordamericana, tra avventura e predica biblica, narra le vicende della baleniera Pequod e della sua multietnica ciurma, al comando del capitano Achab e dei suoi tre ufficiali.
Il viaggio sul mare raffigura la metafora della vita e della morte: il destino oscuro di tutti gli uomini attraverso le tempeste, il rischio dei naufragi, la consapevolezza di poter contare solo sulle proprie forze: in sintesi, l’istinto di Ulisse.
Dal grasso delle balene veniva ricavato un olio combustibile per le lampade. Ma il folle Achab è alla ricerca di una sola balena: Moby Dick, la balena bianca che gli ha strappato una gamba, sfregiato il volto e logorato l’anima. La balena fantasma che tutte le baleniere evitano in quanto considerata astuta e malvagia, come dimostrano i tanti ramponi che ha conficcati sulla schiena: “trofei di tutte le battaglie vinte”, secondo lo scrittore Alessandro Baricco.
La lotta tra il capitano Achab e la gigantesca balena bianca – in realtà un capodoglio – rappresenta la sfida spirituale tra il Bene e il Male: Moby Dick racchiude in sé il male dell’Universo e il demoniaco che si insinua da sempre nell’animo umano.
Il viaggio del Pequod è il viaggio di vendetta del puritano Achab nei confronti di Moby Dick. L’ossessione personale che Achab nutre per quel mostro bianco diventa destino da condividere con l’intero equipaggio. Così il tormentato capitano finisce col trascinare tutti “nel cono della sua follia”. Uno dei tre ufficiali, Starbuck – l’unico in grado di resistere al vento del sortilegio che spinge il Pequod – cercherà invano di fermarlo.
Fonte d’ispirazione per Melville fu la tragica storia della baleniera Essex, affondata nel 1820 da un enorme capodoglio a largo dell’Oceano Pacifico. Un’altra fonte per il romanzo fu la vicenda di Mocha Dick, un gigantesco capodoglio albino vissuto nelle acque del Pacifico all’inizio dell’Ottocento, scampato ad oltre centro scontri con le baleniere, prima di essere ucciso.
Alessandro Baricco, nella sua opera Melville: Tre Scene da Moby Dick (Feltrinelli, 2009), afferma che ciò che colpisce del romanzo è l’anomalo, mutevole, irrazionale processo creativo: “non nacque da un progetto limpido e consapevole” ma “crebbe in certo modo sotto la penna di Melville”, fino a trasformarsi “in allegoria solenne e altissima”. Lo stesso riconoscimento della “grandezza demoniaca” di Achab fu un “processo graduale”.
Sempre Baricco sottolinea la metafora della fosca tragedia del Pequod, tragedia divenuta, ahinoi, attuale:“Gli americani, che nel Moby Dick riconoscono un libro fondativo di una certa identità nazionale, lo citano spesso come testo sacro di un paese, il loro, che sempre ha cercato, e ancora cerca, un punto di equilibrio tra esercizio della democrazia e fascinazione per una leadership forte. In qualche modo, l’ebbrezza in cui le parole di Achab trascinano l’equipaggio del Pequod rappresenta l’icona di un demone a loro noto…”.
Non sono state molte le balene bianche avvistate nel corso della storia ma il romanzo Moby Dick resta una delle opere più utilizzate nel cinema, nella musica e nei fumetti.
Nel 1956 John Houston fece recitare la parte del folle capitano Achab a Gregory Peck, mentre Orson Welles interpretò Padre Mapple in una struggente predica sul destino finale dell’uomo.
Hanno scritto canzoni ispirate al libro il Banco del Mutuo Soccorso con Moby Dick ed Enrico Ruggeri con Bianca balena. Vinicio Capossela ha dedicato al romanzo l’intero album Marinai, profeti e balene.
Persino Dylan Dog è salito sul Pequod in un celebre fumetto del 2001 sceneggiato da Tito Faraci: Sulla rotta di Moby Dick.
Ogni giorno, tra le parti in guerra ormai permanente – tanto da dover modificare le nostre economie in economie di guerra e, da ultimo, reintrodurre il servizio militare obbligatorio – sembra riaffiorare l’incubo della balena bianca: «Laggiù soffia! Laggiù soffia! La gobba come un mucchio di neve! È Moby Dick!».
Mentre l’ossessione del capitano Achab ci sta trascinando gradualmente nel cono di una cieca follia, proprio come l’equipaggio del Pequod.