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VI RACCONTO L’ATMOSFERA GROTTESCA DELL’AUDIZIONE SUL DL CYBERSICUREZZA

di Umberto Rapetto
07/07/2021
in EDITORIALI
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Premetto che non mi aspettavo nulla di diverso. Sono vaccinato non solo per il Covid-19. Da molti anni ho il Green Pass per l’indifferenza istituzionale a determinati temi e quindi ho affrontato questa esperienza nella più serena consapevolezza che non sarebbe servita assolutamente a nulla.

Quel che ho detto – nonostante la gravità delle osservazioni, la causticità delle parole e il tono certamente non genuflesso – è scivolato via, complice l’esiguo numero di presenti che faceva pendant con la latitanza telematica di chi poteva partecipare da remoto.

L’impermeabilità di quelli che avrebbero dovuto essere i miei interlocutori ha rispettato il copione che mi ero – senza grandi sforzi – immaginato. La questione, apparentemente vitale per qualsivoglia sprovveduto, era a distanze siderali persino dalla più banale, legittima e forse doverosa curiosità.

Ho deliberatamente lasciato decantare per una settimana l’accaduto, così da sbollire la rabbia per aver sbattuto contro un muro di gomma e, per di più, per averlo fatto pur sapendo cosa mi toccasse in sorte.

Prevedendo l’assenza di reazioni dell’uditorio, le domande – quelle che chiunque dovrebbe porre e porsi – le ho elencate in una spietata raffica il cui solo frastuono avrebbe dovuto destare irrefrenabili sussulti.

Tralasciando la sgradevole mancanza di rispetto per i quattro convenuti in audizione, manifestata passando tutto il tempo a spippolare come annoiati teen-agers su smartphone e tablet, i sette minuti sono trascorsi nella granitica imperturbabilità. Il rapido incedere dei 420 secondi a disposizione non ha nemmeno consentito a chi parlava di chiedere a chi avrebbe dovuto ascoltare di prestare un briciolo di attenzione.

Sarebbe stato interessante se le inquadrature della diretta streaming, anziché il soggetto “audito”, avessero ripreso lo sparuto gruppo di parlamentari per mostrare quanto fossero devotamente all’ascolto dei laconici interventi.

Ad esser sincero al liceo con i miei colleghi di corso ascoltavo in aula “Alto Gradimento”. Non con le cuffiette o all’epoca con l’auricolare, ma a discreto volume dell’altoparlante. Dinanzi ai banchi del classico B della “Nunziatella”, il professore sbigottito mi chiedeva (aveva più di sette minuti a disposizione) cosa stesse succedendo e io, capoclasse, rispondevo che erano i militari del plotone comando o gli addetti alle cucine della mensa sottostante che non riuscivano a contenere la loro ammirazione per Arbore e Boncompagni.

Ma stavolta non c’era la lezione dell’indimenticabile professor Beauzout, vittima di studenti impertinenti, ma forse una piccola finestra sul futuro e quindi sarebbe valsa la pena adottare un diverso atteggiamento.

Probabilmente il mio pubblico non sapeva nulla della tematica o forse, più facilmente, non sono stato io capace di farmi comprendere nonostante avessi perso un pomeriggio per levigare ogni termine come un virtuoso ebanista del linguaggio e per eliminare ogni asperità quasi fossi un vasaio al tornio.

Dopo di me, gli altri tre interlocutori hanno invece plaudito alla creazione dell’Agenzia, detto di esser pronti a contribuire al successo dell’iniziativa e alla sicurezza cibernetica del Paese, raccontato di aver già a disposizione modelli operativi già collaudati e persino prodotti crittografici (ma che c’entravano?).

Ad un certo punto della “discussione” il conclave è addirittura arrivato a parlare di “antivirus”, raggiungendo il climax dell’orgasmo culturale, e io mi sono compostamente arreso dinanzi all’evidenza dell’irreparabilità della situazione.

Uno degli altri convocati in audizione, con grande senso di subordinazione e in uno slancio degno del miglior Giandomenico Fracchia dinanzi a Gianni Agus, ha voluto parafrasare Neil Armstrong asserendo che quello del nuovo organismo a tutela della sicurezza cibernetica era “un grande passo…”.

Sono convinto che quel piccolo movimento del piede abbia solo portato a calpestare metaforicamente una cacca. Speriamo, come dicono, porti fortuna…

Personalmente di Armstrong avrei scomodato Louis, quello di “All the time in the world”. Lo avrei fatto solo per dire che noi, a differenza del refrain di quel brano, non abbiamo tutto il tempo del mondo per correre ai ripari.

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Umberto Rapetto

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