La battaglia economica del XXI secolo non si combatte solo con carri armati o missili, ma negli smartphone, negli store digitali e nelle scelte quotidiane dei consumatori. In Cina, il mercato che da solo vale oltre un terzo della crescita globale del lusso, si è aperto un fronte che scuote i conti dei colossi occidentali: il patriottismo nei consumi. Per anni il Made in Italy e il savoir-faire francese sono stati simboli indiscussi di status e ricchezza per milioni di cinesi, al punto che fino al 40% dei ricavi globali di gruppi come Moncler, Ferragamo, Prada o LVMH proveniva da Pechino e Shanghai. Oggi però lo scenario è cambiato radicalmente. Le nuove generazioni urbane, in particolare Millennials e Gen Z, non hanno più bisogno di conferme dall’Occidente: lo status ora si misura nell’orgoglio patriottico di indossare sneakers Li-Ning nato come riferimento nazionale per gli atleti cinesi alle Olimpiadi, piumini Bosideng e cosmetici Florasis
Si tratta di un fenomeno strutturale, non episodico. Comprare cinese è diventato un atto culturale e politico, sostenuto da Pechino attraverso campagne “Buy China” e da un ecosistema digitale che amplifica il messaggio. Piattaforme social come Douyin e Xiaohongshu trasformano i brand nazionali in simboli di appartenenza, rendendo l’acquisto un gesto di identità collettiva. Così, marchi locali crescono a doppia cifra: Florasis ha superato i 3 miliardi di dollari di vendite nel 2024, superando Estée Lauder nelle preferenze online; Li-Ning vola a +20% annuo posizionandosi come alternativa premium a Nike e Adidas; Bosideng, con oltre 60 milioni di giacche vendute, consolida la leadership nell’outerwear. Parallelamente, colossi come Anta Sports, dopo aver acquistato Amer Sports (Salomon, Arc’teryx), sono diventati terzo gruppo mondiale dello sportswear, insidiando i giganti occidentali.
Per i gruppi occidentali la situazione è delicata. Il lusso mantiene ancora un vantaggio competitivo in termini di heritage e capacità di pricing power, ma non basta più. Se Moncler ricava oltre il 35% del fatturato dalla Greater China, Ferragamo supera il 40% in Asia-Pacifico e Prada continua a considerare Pechino il primo motore di crescita, anche una contrazione del 5% nella domanda interna cinese può tradursi in una riduzione del 2% o più sugli utili consolidati. A complicare il quadro si aggiunge il fattore valutario: il dollaro, in calo dell’11% contro l’euro da inizio anno, erode i margini dei ricavi USA, togliendo un’ulteriore valvola di sfogo ai conti delle maison.
Il messaggio è chiaro: la Cina non è più un terreno di conquista per l’Occidente, ma una fortezza che difende i propri cavalli di razza e li proietta all’estero. E se un tempo i brand occidentali erano i soli a dettare legge, oggi scoprono di essere ospiti tollerati in un mercato che può fare a meno di loro. Da qui la corsa alle strategie difensive: collezioni “made for China”, ambassador locali, co-branding con designer cinesi, fino alla localizzazione di parte della produzione. Non più lusso universale, ma lusso adattato, nella speranza di riconquistare un consumatore che si fida sempre meno dell’Occidente.
Il patriottismo dei consumi, dunque, non è moda passeggera ma nuova geografia del potere economico. L’Oriente ha smesso di inseguire e ha iniziato a dettare le regole: i suoi brand nascono nel mercato domestico e poi attaccano il globale, con risorse finanziarie immense e un consenso sociale che trasforma ogni acquisto in gesto di rivincita nazionale. L’Occidente, stretto tra dazi USA e dollaro debole, assiste al ridimensionamento del proprio dominio. La partita del lusso si gioca in Oriente, e questa volta non si parte in vantaggio: il futuro del prestigio mondiale potrebbe parlare sempre più cinese.