Chi pensa ad un titolo ad effetto si sbaglia. Purtroppo è solo la semplice e spietata constatazione di quel di cui si sta parlando in questi giorni.
Negli anfratti più oscuri di Internet (o semplicemente nelle pagine non indicizzate dai motori di ricerca che etichettiamo come deep web) sarebbero presenti le copie dei documenti di centinaia di migliaia di persone. Secondo tradizione i colpevoli sono i soliti pirati informatici, così da spersonalizzare responsabilità che invece hanno ben più precise radici e che pochi hanno voglia di riconoscere.
Chi si occupa non da ieri di computer crime difficilmente riesce a riconoscere doti soprannaturali ai cosiddetti hacker e sa perfettamente che questi riescono nei rispettivi intenti grazie alla inconsapevole collaborazione delle loro stesse vittime. Sono bravi, loro. Bravi non solo nella accezione manzoniana.
I malfattori, che hanno trovato nella Rete la possibilità di sfogare i più bassi istinti delinquenziali, conoscono i punti deboli dei nostri comportamenti e approfittano di tanti quotidiani errori dei loro potenziali bersagli così da trarne profitto.
E’ estremamente facile capire come sia stato possibile che le profondità telematiche abbiano accumulato un simile tesoro di dati personali e forse vale la pena ricostruire l’accaduto non partendo dal doloroso ritrovamento, ma riavvolgendo il nastro dell’immaginaria disavventura e “vedere” come tutto è cominciato. Così facendo ci si accorge di essere stati noi stessi ad accendere la miccia di questa esplosiva situazione.
Quando ci si reca in albergo o in qualunque altra struttura ricettiva si è tenuti a presentare un documento identificativo. Questa prassi, storicamente sancita dal Testo Unico delle leggi in materia di pubblica sicurezza, ci impone di riflettere sul significato del “presentare un documento”.
Chi gestisce un hotel deve registrare gli ospiti e annotare su apposite schede (destinate poi alla Questura) gli estremi del documento di identità, completi di nome e cognome, data/luogo di nascita, residenza, ente/data/luogo di rilascio…
Attenzione, però. La disciplina vigente non chiede di fotocopiare o scansionare il documento in questione e questa cattiva abitudine è figlia della pigrizia di chi siede alla concierge e della fretta di chi non vede l’ora di raggiungere la propria camera.
La copia fotostatica o l’immagine acquisita con lo scanner non sono previste da nessuna norma e pochi sanno (forse lo hanno scoperto adesso) che quel genere di operazione può rivelarsi fatale. Quella riproduzione può essere l’innesco di una infinità di iniziative in nostro danno, facendoci ritrovare inaspettati protagonisti di guai incredibili.
Per rubare il “malloppo” presente sul PC di un albergo non c’è bisogno di un acrobata digitale, ma potrebbe esser sufficiente sedersi alla tastiera di quell’apparato per estrarne copia. Quella “macchina” potrebbe finire in un laboratorio tecnico per un qualsivoglia malfunzionamento e i suoi dati sarebbero facilmente accessibili e riproducibili. O, ancora, quel computer arrivato a fine carriera (nel giro di un paio di anni l’obsolescenza si fa sentire) magari viene venduto tramite qualche sito web dove i criminali informatici sanno di poter acquistare non il “ferraccio” ma il suo contenuto…
Il tema merita di essere approfondito e sarà facile condurre per mano chi legge in maniera da permettergli di acquisire la giusta consapevolezza e “vaccinarsi” contro prossime fregature,
Alla promessa di continuare domani a trattare l’argomento voglio abbinare l’invito a pretendere che chi registra la presenza in albergo si limiti a copiare quel che gli serve senza affidarsi a fotocopiatrici di sorta e rispettando quel che stabilisce l’articolo 109 del cosiddetto TULPS…
Potremmo parlare di una domenica di fuoco senza nemmeno lambire il ritrito tema del caldo africano che soffoca l’Italia...
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