In quel tempo, tra la fine del 900 e l’inizio del terzo millennio, i presidenti degli Usa non venivano eletti tra i pensionati come nel decennio in corso. Bill Clinton, George W. Bush, e Barak Obama erano, infatti, sulla cinquantina, nel momento più fecondo della maturità e, così, alla Casa Bianca, oltre agli staff, alla CIA e a quant’altro, potevano circolare pure ormoni ben vitali. Di loro naturale iniziativa, o in qualche modo stimolati dalle solite manine e manone. Da quelle parti, tra le più esperte del mondo.
A leggere l’Autobiografia di Bill Clinton, eletto a 47 anni, gli intrecci di stampa, suggeritori, processi a contorno di pruriginose avventure galanti, vere o false, appaiono humus costante e sottostante campagne elettorali e comunque vicende politiche. Con un rigoroso moralismo a copertura di basse incursioni e la politica a confermarsi spettacolo all’apparenza e guerra nella sostanza.
In ogni operazione bellica, la strategia è fondamentale. Un percorso studiato a tavolino il cui obiettivo appare alla fine di un certo percorso e, talora, quasi per caso.
Come successe nell’affare Lewinsky, dal nome della stagista il cui occasionale e non del tutto rituale rapporto con il suo capo, il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, apparve in un’aula di Tribunale quasi en passant ed invece deflagrò monopolizzando per mesi la curiosità dell’opinione pubblica mondiale, le disquisizioni dei giuristi, l’attesa desiderata o temuta di conseguenze sul piano politico. Tra le quali, se accettato l’impeachment richiesto, addirittura la deposizione ingloriosa del potente imperatore d’Occidente.
Il 4 febbraio 1992, un tabloid di Little Rock, città dell’Arkansas – Stato di cui il coniugato candidato presidenziale era governatore – raccontò di una sua relazione “durata dodici anni” con tale Gennifer Flowers, la quale, dapprima negò. Poi, sostenne di possedere registrazioni che, secondo lei, provavano il rapporto.
Quando esse vennero rese pubbliche, non rivelarono però granché e, in una conferenza stampa al Waldorf-Astoria di New York, la ragazza ammise di essere stata “avvicinata da un candidato repubblicano locale, che le aveva chiesto di rendere pubblico il fatto”.
Informatori deformanti, dunque, e manine mosse da interessi politici contrari. Colpi bassi e non a vuoto.
Durante quella vicenda, comparve anche il nome di un’altra donna, Paula Jones. Una signora che pure accusò di molestie Clinton, il quale, poi, il 17 gennaio 1998, durante un’udienza durata “diverse ore”, si trovò a parlarne “solo dieci o quindici minuti.”
Infatti, le discussioni erano insistentemente indirizzate dagli avvocati dell’accusa su un terreno più teorico-giuridico generale che su quello giudiziario specifico. Mettere, cioè, un punto fermo sulla definizione di rapporti sessuali i quali potevano anche consistere nel “contatto intimo che andava oltre il semplice bacio, da parte di una persona che soddisfaceva una richiesta, anche senza la partecipazione attiva del richiedente”. Come, infine, certificato dal giudice.
Col senno di poi se ne intuisce l’importanza, considerando che il Presidente, anziché su Paola Jones, fu bersagliato di domande che “non avevano alcuna attinenza con lei, comprese quelle su Monica Lewinsky”.
Non gli erano chiari i motivi dell’inatteso interesse degli avvocati per questa ragazza, “né comprendevo l’esatto significato della singolare definizione di rapporti sessuali”, scrive Clinton nell’Autobiografia. Così ”Non raccontai la verità sulla mia relazione con lei”. Una scena quasi manzoniana: Gertrude, la monaca di Monza de I promessi sposi, che “sventurata rispose”.
Qualche giorno dopo, il Washington Post aprì con un articolo in cui gli si attribuiva la liaison e la storia diventò di dominio pubblico.
Era stata, peraltro, la stessa Lewinsky a rivelarla già nel 1996 ad una collega, Linda Tripp, che registrò la conversazione con lei e fece ascoltare i nastri ad un giornalista di Newsweek che li sottopose a Luciana Goldberg, “un’articolista repubblicana conservatrice”.
Il cerchio si chiudeva: dal privato al pubblico sul convoglio della stampa verso la stazione della politica.
La Tripp collaborò con l’accusa del processo. Clinton continuò a negare tutto e intanto continuava a fare il presidente pronunciando con successo il Discorso sullo Stato dell’Unione e trattando con Netanyhau (anche allora) e Arafat sulle eterne tragedie del Medio Oriente. Ma su quell’affaire di amore clandestino, si era convinto che: “Con la mia cattiva condotta, avevo danneggiato la presidenza e il popolo”. Riconoscerà, infatti, il suo sbandamento extraconiugale, ma l’Avvocato Generale, Ken Starr, intendeva dimostrare soprattutto che il presidente “aveva fornito risposte false e incoraggiato Monica Lewinsky a fare altrettanto”.
Davanti al Gran Giurì, Clinton ammise “un contatto intimo inappropriato con Monica Lewinsky” che però, a suo avviso “non costituiva rapporto sessuale secondo la definizione considerata valida dal giudice”. Le domande di Starr, però,” erano finalizzate ad umiliarmi e a disgustare a tal punto il Congresso e il popolo americano a chiedere le mie dimissioni”. Che, poi, Clinton non fu costretto a rassegnare. Però, la Camera dei Rappresentanti lo riconobbe colpevole di aver mentito al Gran Giurì e di aver ostacolato la giustizia.
Al democratico Clinton succedette il repubblicano George B. Bush jr.
Sul caso Lewinsky, Enzo Biagi, raccontando che, all’epoca, gli inviati della stampa internazionale preferivano lasciare Cuba e disinteressarsi di Fidel Castro per andare a seguire de visu i contraccolpi della vicenda su Washington, commentò: “E’ mia convinzione che spesso ciò che accade nel condominio è più interessante di quello che avviene a Pechino o nella Terra del Fuoco”