Ricorrenze: di settembre, il 25, nell’anno 1896, nacque a Stella in Liguria, Sandro Pertini “il Presidente”, come lo chiamavano con affetto, più che con deferenza.
Un ricordo. La sera dell’11 marzo 1985, a Buenos Aires, di ritorno all’Hotel Plaza dove alloggiava durante la visita ufficiale all’Argentina, il portiere ci avvertì che il presidente aveva improvvisamente deciso di interrompere gli incontri di Stato e andare a Mosca per i funerali di Konstantin Cernenko, uno dei capi meno ricordati dell’Unione Sovietica.
Qualcuno, maliziosamente, pensò trattarsi di un modo per consolidare l’amicizia col Pci, determinante per un suo eventuale bis al Quirinale. Ma non era così.
LE PLATEE DEL PRESIDENTE PROTAGONISTA
Lui, che a ottantadue anni, nel 1978, era stato eletto capo dello Stato – ed ascoltando il suo primo discorso un intelligente scanzonato imitatore come Alighiero Noschese aveva pianto – sapeva, e gli piaceva, esser protagonista, adorato dalle folle, stare ovunque potesse al centro dell’attenzione.
Così, quella sera, incurante dei consigli di Giulio Andreotti che come ministro degli esteri lo accompagnava – mentre Susanna Agnelli, sottosegretario, a cena con noi, niente sapeva – ordinò il rimpatrio.
Gli argentini non gradirono e il suo aereo ebbe strane avarie, costringendolo ad una forzata attesa notturna, finché non fu tolto da uno dei motori un corpo estraneo il quale, chissà come, c’era entrato.
Non importa. La platea internazionale della Piazza Rossa lo attraeva di più.
Quel che contava in quel periodo per lui, ma anche per gli italiani colpiti da forte crisi economica e soprattutto dal terrorismo, era “il cuore”, il ritrovare cioè un Capo, Pertini, con cui avere sintonia e fiducia. Un saggio vecchio da cui prendere coraggio per proseguire. (Toto Cotugno, si cantava “italiano vero con un partigiano come presidente”).
Non mancò, perciò, mai un bagno di folla e neanche un funerale.
Da quello di due papi a quelli degli assassinati dal terrorismo, l’operaio Guido Rossa, il magistrato Alessandrini, il capitano Varisco, il maresciallo Taverna, Bachelet – per citarne alcuni – e, delle Brigate Rosse, appena eletto disse: “Quei criminali che usurpano il nome delle Brigate Rosse (partigiane) mi hanno minacciato. Bene, eccomi! Si facciano avanti, ma li avverto che da morto darò fastidio più che da vivo”. La gente apprezzò e i brigatisti lo presero sul serio.
Andò a rendere omaggio al feretro di Almirante, fondatore del Msi, il partito epigono del fascismo che aveva combattuto e da cui era stato combattuto duramente.
Vegliò sull’aereo presidenziale il capo dei comunisti, Enrico Berlinguer, nel rientro a Roma da Verona dove era morto e quando i capi del suo partito, il Psi, Craxi ed il vice Claudio Martelli, lo rimproverarono per questa emotivamente straordinaria “sponsorizzazione” che fece aumentare voti ai comunisti, egli rispose a bruciapelo: “Voi due fate una cosa: andate a Verona, suicidatevi sulla tomba di Giulietta e io vi riporto a Roma in aereo. Così vediamo quanti voti prende il partito”.
Rimase fermo per ore a Vermicino di fronte al buco dove era sprofondato un povero bambino, Alfredino Rampi, ma in diretta tv. Irato, a reti unificate, contro una classe politica colpevole negli aiuti ai terremotati d’Irpinia. Alla ricerca di localini tipici nelle capitali dove andava in visita ufficiale, ma anche della discoteca di lusso, il Regine di New York, o con i reali di Spagna a vedere ballare il flamenco. Ovunque, suscitando entusiasmo e simpatia.
Perfino alla borsa di New York dove l’applauso di cortesia degli operatori fu accompagnato, all’americana, dal lancio verso la sua tribunetta di fasci dei foglietti delle contrattazioni.
E chi non lo ricorda esultante sugli spalti a Madrid per la vittoria italiana ai campionati di calcio del 1982 e, poi, immortalato nella mitica partita a settebello con Causio e Bearzot?
Protagonista voleva essere sempre, anche in quel gioco, dove “non poteva” perdere.
Ne sa qualcosa Massimo D’Alema, quando sull’aereo che li portava al funerale di un altro capo russo, Andropov, ebbe la malaugurata idea di schernirlo per un calo di carta inopportuno. Pertini lo maltrattò e toccò ad Andreotti, che giocava in coppia col presidente, risolvere il caso con una interpretazione ad usum delphini delle regole del settebello per assicurare la rivincita presidenziale, ammonendo poi sornione il giovane temerario: “Caro Massimo, non si fa perdere un capo dello Stato, specie se si chiama Pertini e per di più dopo averlo sfottuto”.
La gente lo adorava. Con i giovani aveva un feeling da nonno a nipoti che mai aveva avuto perché senza figli e li accoglieva per parlarci amabilmente nelle sale del Palazzo che faceva aprire per le scolaresche.
La stampa stravedeva per lui e gli perdonava scatti d’umore ed errori, come il licenziamento in tronco dell’incolpevole suo addetto stampa, il giornalista Antonio Ghirelli.
Meno i rivali politici, che talora ne parlavano “malissimo” e Indro Montanelli per il quale “non bisogna essere socialisti per amare Pertini, uomo onesto, coraggioso, coerente con le sue idee, anche perché ne ha pochissime” o ”Quando Pertini è apparso in video alla premiazione del concorso ippico il cronista ha commentato: Anche i cavalli come vedete sono gentili col Presidente”.
(continua)