Come primo presidente del consiglio dell’Italia repubblicana, Alcide De Gasperi, il 27 dicembre 1947, firmò la Carta Costituzionale insieme al capo provvisorio dello stato Enrico De Nicola (nella foto) ed al presidente dell’assemblea costituente, Umberto Terracini.
Gli otto anni in cui guidò la ricostruzione dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale finirono alle 19 del 28 luglio del 1953, nel Palazzo Farnese di Caprarola, in provincia di Viterbo.
Lì villeggiava il presidente della repubblica Luigi Einaudi, al quale rassegnò le dimissioni, dopo che in mattinata il parlamento aveva negato la fiducia al suo ultimo governo.
Morì l’anno successivo. Nei suoi 73 anni aveva avuto – come scrisse la figlia Maria Romana – tre vite.
La prima, lui trentino, da “rappresentante di un popolo di sentimenti italiani, ma suddito austriaco”. Studente cattolico e contestatore che provò anche il carcere, difensore dei diritti di chiunque soffrisse la prepotenza dei padroni di casa, compresi arrotini e spazzacamini alpini.
Deputato nel parlamento di Vienna con l’occhio e l’azione rivolti al legittimo ritorno in patria.
La seconda, dal 1921, di contrasti, sofferenze e umiliazioni. Parlamentare italiano dimesso, incarcerato e sorvegliato dalla dittatura fascista. Povero: “una stanza e una tenda a fiori per separarla dal corridoio con le brandine delle figlie”. Modesto impiego in Vaticano, guardato anche lì con sospetto per le sue titubanze sulla politica concordataria tra regime e Santa Sede “compromissoria per la Chiesa”.
Attivo nel preparare il dopo. “Uomo della resistenza” lo definirà il socialista Pietro Nenni, suo eterno antagonista, che nei diari (8 luglio 1974), annota un antico colloquio in cui i due ricordavano quando “tu (Nenni) saltavi i pasti a Parigi (esule) e io (De Gasperi) vivacchiavo di stenti a Roma”.
Poi, la liberazione e la terza vita da uomo di governo, alla guida della ricostruzione di un Paese in cui la guerra aveva lasciato sette milioni di senza tetto, ferrovie, strade e porti ridotti al dieci per cento della funzionalità, mancanza dei pur minimi mezzi di sussistenza: delle 260 mila tonnellate mensili di grano necessarie ce n’erano solo 140.
I suoi governi lasciarono l’Italia ricostruita economicamente e politicamente (“restaurata”, puntualizzarono Nenni e Togliatti), nonostante le ricorrenti crisi parlamentari, per evitare le quali, volle, nel 1953, una legge che al partito con un voto in più del 50% assegnasse un numero di seggi utile alla stabile governabilità. La chiamarono “legge truffa”. Nelle elezioni di quell’anno, la Dc, pur confermandosi primo partito, non ottenne quella maggioranza ed il governo che De Gasperi fu incaricato di formare venne bocciato la mattina di quel 28 luglio 1953. Einaudi chiuderà poi d’imperio la crisi firmando l’incarico a Giuseppe Pella.
La sera stessa, dunque, De Gasperi, “stanco ma sereno” arrivò a Palazzo Farnese e alla folla di giornalisti e fotografi che l’attendevano, commentò: “E’ il saluto al gladiatore decaduto”.
Quando aveva iniziato, si era dovuto presentare alle nazioni vincitrici la guerra riconoscendo, nel gelo che lo accolse, come “solo la loro personale cortesia” gli consentiva di avere ascolto. Chiese che venissimo aiutati “a portare il peso della nostra sventura con dignità”. Ottenne fiducia, gli americani credettero nel suo progetto di ricostruzione e lo finanziarono.
In pochi anni, l’Italia diventò protagonista sulla scena mondiale con le scelte del Patto Atlantico (riarmarsi per difendersi – le nazioni europee con gli Usa – come facevano, al di là della “cortina di ferro”, i paesi comunisti nel Patto di Varsavia). Scongiurare, poi, altre guerre, attraverso l’Unione Europea, anche per riequilibrare lo scontro tra i blocchi sovietico e americano,“ concezione attiva con quel retaggio culturale comune che esalta la figura e la responsabilità della persona, col suo fermento di fraternità evangelica e di diritto ereditato dagli antichi”.
Da costruire non con le “scartoffie”, ma ritrovandosi intorno al tavolo come “uomini prima che come diplomatici” (o burocrati si direbbe oggi).
Con Sturzo, De Gasperi trasformò il vecchio Ppi nella Democrazia Cristiana, partito che nel suo intendimento avrebbe dovuto “fornire ai cittadini orientamenti senza intimazione… non promettere l’irrealizzabile. Accampato nella società per servirla, non per dominarla, senza far credere ad uomini mito”. Con “l’apertura al progresso sociale, alla giustizia per i lavoratori, nel rispetto della libertà individuale e collettiva, proponendo soluzioni pratiche ed accettabili” dagli altri.
Anche quando la Dc ebbe la maggioranza assoluta egli volle, infatti, sempre associare al governo altri partiti. La ricerca della collaborazione con le forze politiche democratiche gli consentì di guidare con equilibrio anche la difficile transizione, nel 1946, dalla monarchia alla repubblica e pochi ricordano che proprio lui, De Gasperi, fu il primo capo provvisorio dello Stato italiano e non Enrico De Nicola. Nominato dal Consiglio dei Ministri, dopo che fu certificata la vittoria della Repubblica, alla mezzanotte tra il 12 e il 13 giugno 1946.
Con i comunisti aveva collaborato fino a che, per lo scontro tra Usa e Urss, non dovette rinunciare alla loro presenza nel governo, la quale, peraltro e come si sa, era appunto di governo, ma anche di lotta. Una volta, raccontò, “obiettai a Togliatti: ma siete due o uno? Togliatti, che sa di letteratura, mi rispose ricordandomi la frase dantesca “ed eran due in uno. Controllai, era il canto XVIII dell’Inferno”.
Nel simbolo del suo partito De Gasperi, con la parola libertas, volle una croce. Era cristiano, ma seppe opporsi con durezza alle pretese di papa Pio XII di costringere la Dc all’alleanza con i fascisti per evitare che a Roma fosse eletto un sindaco comunista. La Dc vinse da sola, ma De Gasperi dovette subire l’umiliazione del rifiuto di un’udienza da Pio XII nonostante fosse in occasione dell’anniversario del suo matrimonio e della professione religiosa della figlia Lucia che si era fatta monaca.
Tredici mesi dopo quel viaggio a Caprarola, nel 1954, De Gasperi morì nel suo Trentino con accanto la famiglia e chiedendosi: “Di quanti errori mi chiamerà responsabile il Signore, padrone della terra e dei popoli?”.
Poco prima aveva scritto il suo ultimo discorso per il congresso Dc di Napoli “stando a letto” e lo volle leggere tutto, nonostante si fosse dovuto interrompere per la debolezza fisica. Era sempre stato un oratore stringato ed incisivo.
Piaceva all’elettorato femminile, scrisse Giampaolo Pansa parlando dei suoi comizi.
Quando era partito l’ultima volta da Roma per il Trentino, fu salutato alla stazione da “pochi fazzoletti” e pochi amici politici, tra i quali il ministro Bernardo Mattarella, padre dell’attuale capo dello stato e il fedele Giulio Andreotti.
Ma il suo funerale attraversò “trionfalmente” – scrissero le cronache – mezza Italia, dalla Valsugana alla basilica di San Lorenzo a Roma, dove è sepolto.