Ricorrenze.
Come Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti morì in agosto, il giorno 21, cinquantasette anni fa, dieci anni dopo il suo storico avversario. Ad ambedue l’Italia è debitrice.
Se essa, infatti, non patì la dittatura – e anche la miseria – dei regimi comunisti, la ragione è certamente nella divisione del mondo in blocchi a Yalta, nel 1945, ma il merito di averla poi tenuta nel blocco occidentale, va a De Gasperi, che seppe ottenere pure una adeguata contropartita finanziaria e militare dagli USA, ma anche a Togliatti il capo – “il Migliore” – del Partito Comunista Italiano, che in Italia, era tornato quando i destini della seconda guerra mondiale cominciavano a delinearsi. Prima, era riparato Mosca dove partecipava alla guida del Comintern, l’organizzazione mondiale dei partiti comunisti.
Arrivò la sera del 27 marzo 1944 a Napoli, nella sede locale del PCI che – essendo Roma ancora occupata dai tedeschi – fungeva da direzione nazionale. Racconta Maurizio Valenzi, – poi parlamentare e sindaco della città partenopea – che uno dei capi del PCI, Adriano Reale, lo presentò ai compagni dicendo semplicemente “ Permettete che vi presenti il nostro segretario”. All’epoca si faceva chiamare Ercole Ercoli o Mario Correnti, per sfuggire alla polizia fascista ed evitare di essere arrestato, come il predecessore Antonio Gramsci che, per il duro carcere, morì.
Tra i due, Gramsci e Togliatti, non sempre le idee avevano collimato. Indirizzato Gramsci verso una via italiana al comunismo, fedele collaboratore di Stalin e perfettamente allineato alla politica sovietica, Togliatti, per il cui ritorno clandestino in patria il Cremlino aveva mobilitato l’intera rete spionistica di Mosca per la sicurezza del viaggio tra Baku, Teheran, Il Cairo, Algeri, fino a Napoli.
Grande infatti era l’interesse di Mosca a ché un suo uomo guidasse il partito fratello italiano e Stalin in persona, nella notte del 3 marzo 1944, lo informò degli accordi (di Yalta) che si stavano definendo e che, quindi, in Italia andavano accantonati i progetti di insurrezione armata che pure si stavano preparando. Baffone, come lo chiamavano i nemici in Italia, era consapevole che un tradimento delle intese tra le nazioni vincitrici della guerra avrebbe portato l’Unione Sovietica ad uno scontro militare non auspicato ed anzi temuto.
Così può spiegarsi il comportamento bifronte spesso rimproverato a Togliatti. Possibilista nel confronto istituzionale con la Monarchia, gli altri partiti, la Chiesa; durissimo nella lotta per imporre allo Stato che si andava costruendo fondamenti che in qualche modo richiamavano concezioni economiche di stampo sovietico, come l’art. 41 della Costituzione dove riecheggiano le basi del dirigismo economico russo: ”La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. In sostanza, la funzione sociale dell’iniziativa economica privata e i confini e limiti alla libertà di impresa.
Un intellettuale raffinato come Dossetti (allora costituente democristiano, poi prete ed eremita, ispiratore di tanta parte della sinistra cattolico-democratica) spiegherà che si trattava di “confluenza di due grandi correnti: il solidarismo umano e sociale di matrice cristiana e il solidarismo di ispirazione ideologica” marxista. Altri, come il laico Vittorio Emanuele Orlando, sui lavori della Costituente, preferì parlare di un Togliatti che avrebbe ceduto su vari aspetti solo per “concedere agli altri il fumo e riservarsi l’arrosto”.
Non erano lontani i tempi in cui il compagno Ercoli, tornato dalla Russia, da un lato si mostrava possibilista nei confronti del re e del governo Badoglio (quello che lasciò Roma sola in mano ai tedeschi fuggendo a Salerno) del quale l’Ercoli ridiventato Togliatti fu ministro, in contrasto con l’intransigenza di membri del Comitato di Liberazione Nazionale ed in particolare con quella del capo dei socialisti, Pietro Nenni.
Dall’altro, e nonostante la deferenza formale nei confronti del maresciallo Badoglio (erano ambedue piemontesi e “cortesi”), a Togliatti, bastarono poche parole per concordarne col CLN la caduta, cui seguì la formazione del governo Bonomi nel quale, insieme a De Gasperi, fu ministro senza portafogli.
Andava così costruendo il suo PCI, partito di lotta e di governo, con un rigore divenuto emblematico nella aziendalizzazione del partito e nel saper rispondere con energia e senza tentennamenti alle esigenze di evoluzione delle masse operaie, dalle quali fu premiato ottenendone la rappresentanza primaria, superando cioè, ben presto, il peso politico del PSI.
Togliatti sapeva dimostrare insieme flessibilità e decisione e, per questo, a qualcuno più innamorato dei sogni di rivoluzione che avvezzo al realismo politico, dovete apparire “più pompiere che incendiario”. Come quando da ministro della giustizia nel governo De Gasperi gestì con equilibrio l’epurazione dei compromessi col regime fascista e la promulgazione della grande amnistia del 1946 per cancellare i reati, compresi quelli di collaborazionismo.
Aveva infatti chiaro che il fascismo non era stato un fatto di pochi, ma un fenomeno di massa, del quale la quasi totalità degli italiani per anni si era dimostrato orgoglioso, nonostante la censura, la polizia segreta, gli assassini e soprattutto le inutili guerre. Sia quelle nel segno di Roma imperiale, sia, soprattutto, quella di supremazia anche razziale scatenata da Hitler.
A queste masse, una volta dedite al saluto romano ed ai littoriali fascisti, Togliatti seppe rivolgersi in un’opera di “redenzione” partita anzitutto dal recinto degli intellettuali, troppo spesso adusi a salire sul carro del vincitore, e con i quali impiantò la lunga e possente “egemonia culturale” del PCI al quale aderì la migliore intellighentia del paese.
Una operazione politica che portò molti dei fascisti di ieri a militare con l’ardore dei neofiti nel fronte antifascista e comunista, probabilmente consapevoli di doversi far perdonare qualcosa. Nelle scuole, nelle università (dove solo una quindicina su 1200 professori avevano rifiutato il giuramento di fedeltà al duce), nelle arti, nella magistratura che da ministro seppe “blandire e riverire”, come scrisse Giorgio Bocca. Troppo lungo l’elenco, ma tanta parte dei cosiddetti intellettuali di sinistra che per decenni hanno monopolizzato il dibattito culturale italiano trovarono reclutamenti facili grazie agli indirizzi togliattiani.
Lui stesso era di elevata finezza intellettuale, amante delle lettere e del teatro. In contrasto col freddo politico capace di ricorrere alla terminologia più popolare quando necessario a tonificare i compagni. “Un elefante che in un negozio di maioliche ha la noncuranza del tanto peggio per quel che va in frantumi” lo definì il compagno amico-nemico Pietro Nenni, pronto a “cacciare a calci nel sedere De Gasperi”, il quale evitò le pedate perché nelle elezioni politiche del 1948 vinse la DC e ad essere cacciato dal governo, per volere americano, fu Togliatti.
Questo, nonostante il Migliore avesse fatto votare i compagni a favore dell’inserimento in Costituzione dei Patti Lateranensi tra Santa Sede e Stato Italiano. Una scelta che irritò molto laici e socialisti, ma essa, più che una ricerca di garanzia di mantenimento del PCI al governo, fu disegno politico coerente con la necessità di assicurare la compattezza delle masse popolari, le quali, allora, indipendentemente dall’orientamento politico, erano sicuramente sensibili all’identità cattolica.
Un comportamento che sul piano psicologico individuale trovava forse origine – e può spiegare molte cose – nella formazione cattolica ricevuta dal giovane Togliatti in famiglia, in particolare dal padre Antonio che aveva studiato in seminario e che lo aveva avvicinato alla pietas sociale dei don Bosco e dei Cottolengo della Torino in cui viveva.
Sul piano politico, rivelazione di un senso democratico più profondo delle ideologie, che, dopo l’attentato subito in piazza Montecitorio, mentre infuriavano rivolte in tanta parte del Paese anche con morti, portò Togliatti ad invitare i compagni a “stare calmi, a non perdere la testa”. Fu obbedito e l’Italia evitò un bagno di sangue che l’avrebbe isolata dalla comunità internazionale ed oggi non ricorderemmo l’attentato col sospiro collettivo di scampato pericolo su cui Bartali, con la famosa vittoria al Tour, mise un sereno sigillo.
Fedele esecutore di Mosca anche quando i russi invasero l’Ungheria nel 1956, si sentì in qualche modo vittima come Stalin di cui era stato collaboratore quando il successore del dittatore, Nikita Khruscev, ne rivelò i crimini in nome della rivoluzione. Percepì i rischi di deficit identitari per un partito cui i sommi sacerdoti distruggevano il santuario di riferimento, dal quale molti intellettuali ed iscritti cominciarono a prendere le distanze e lui stesso, nel memoriale di Yalta, il testamento scritto lì dove morì nell’estate del 1964, indicò i modi per percorrere una via italiana al socialismo sognata tanto tempo prima da Gramsci.