Quando il giorno di Ferragosto del 1977, Herbert Kappler, il maggiore delle SS che aveva anche partecipato personalmente al massacro delle Fosse Ardeatine, scappò dentro una valigia – o fu lasciato scappare – dall’Ospedale militare del Celio, il ministro della difesa dell’epoca, Vito Lattanzio, non andò sotto processo. Semplicemente, gli cambiarono ministero da via XX Settembre ai Trasporti, di fronte a Porta Pia.
Per Kappler, prigioniero di guerra, dalla Germania si chiedeva da tempo alle autorità italiane un provvedimento di grazia. Già nel 1973, il presidente della repubblica Gustav Heinemann “al momento del caffè, dopo un pranzo ufficiale in ambasciata”, fu esplicito, ricevendo però un fermo rifiuto da parte del nostro capo del governo. Un rifiuto ufficiale che rimarrà negli anni successivi, nonostante le “raccomandazioni” di clemenza arrivassero da ogni parte. Perfino da ambienti religiosi, se il pastore valdese Tullio Vinay, senatore per gli Indipendenti di sinistra, si era fatto latore di una petizione della chiesa protestante tedesca.
Nel 1976, poi, i giudici militari decisero che la sorte di Kappler fosse di competenza della Magistratura, togliendo al Ministro della Difesa la facoltà di inoltrare o meno le domande di liberazione condizionale. Una “esagerazione in autonomia” la definì Andreotti.
Scontro istituzionale, anche allora e… dum Romae consulitur Kappler scappa.
Meno deflagrante, comunque, di quello di oggi sul rimpatrio di Osama Almasri, sospettato di crimini contro l’umanità e di guerra. Una “liberazione” in cui le ragioni di sostanza relative alla sicurezza nazionale han dovuto adattarsi ad un iter dal carattere un po’ naif.
Ragioni superiori e situazioni delicatissime che trascendono il singolo caso. Attengono a rapporti fra Stati e richiedono tanta prudenza e un po’ di buona esperienza per evitare, con misure anche border line, gravi danni al paese.
Per il caso Almasri, il pericolo di ritorsione dei movimenti libici nei confronti degli italiani – persone e aziende – operanti in Libia e per l’intera collettività alle prese con un fenomeno migratorio sempre più di rilevanza epocale.
Allora, alla fine degli anni ’70, l’insistenza tedesca pro Kappler che non poteva essere presa alla leggera: basti ricordare che nel 1974 il governo Rumor dovette ricorrere ad un prestito biennale di due miliardi di dollari dalla Bundesbank garantito con le riserve auree della Banca d’Italia e che tale affidamento, rimasto insoluto alla scadenza, fu rinnovato dal governo Andreotti (quello della “non sfiducia” comunista) nell’ agosto del 1976.
Esattamente un anno prima del Ferragosto in cui la moglie di Kappler, Annelise, che aveva il permesso permanente di andare a trovare il marito “prigioniero di guerra in libertà vigilata” nell’ospedale del Celio, lo prelevò, lo nascose in un “valigione” che portò in macchina (quanto doveva essere vigorosa la signora Annelise!) e indisturbata partì verso casa sua, a Soltau in Germania.
Nessuno se ne accorse, complice, dicono, il “letargo” agostano che, però, non può spiegare tutto.
Quando fu dato l’allarme, i due avevano probabilmente già passato il confine. Il presidente del consiglio, in vacanza a Merano, lo venne a sapere intorno a mezzogiorno, come il ministro della Difesa Lattanzio che, interrotti i bagni, da Fregene si precipitò a Roma dove, però, non poté dare alla stampa grandi ragguagli.
Candidamente, nel diario di quel giorno, il presidente Andreotti annota: “si brancola nel buio. Né è facile, in giorni di traffico come questi, bloccare l’uscita dall’Italia allo scomodo prigioniero”.
Amen. Passa Ferragosto e una settimana dopo, in consiglio dei ministri ci si domanda: “Ma è veramente malato? Tutte le analisi lo attestano ed è impossibile pensare a un camuffamento”. Intanto, se ne chiede l’estradizione: “ma vi saranno difficoltà”.
La stampa e i partiti se la prendono con Lattanzio, difeso dal presidente del consiglio: “Come poteva impedire la fuga? Fosse rimasto a Fregene, si sarebbe risparmiato le critiche e lo lascerebbero in pace”.
Anche in parlamento attacchi durissimi con i repubblicani a chiedere le dimissioni del ministro…forse per far cadere il governo che, però, è di “unità nazionale”. Così, i partiti che lo sostengono si accordano per trasferire Lattanzio ai Beni Culturali. Ma lui non gradisce perché preferisce i Trasporti.
Tutto è bene quel che finisce bene, dunque, e la ragion di stato, anche se non proclamata, omnia vincit. Tranne la morte che coglie Herbert Kappler sei mesi dopo (Andreotti annota: “era meglio non fosse nato”) e per Lattanzio l’esclusione dal nuovo governo. Unicuique suum,
J.K. Galbraith, con l’esperienza di consigliere di tre presidenti USA, diceva: “La politica consiste nello scegliere tra il disastroso e lo sgradevole”.