Mosè, dopo tutto quanto aveva fatto, non poteva certo prevedere quel che sarebbe successo ai territori su cui insediò il suo popolo. Né come sarebbero proseguite le guerre che, a lui, aveva ispirato il Dio degli Eserciti.
In rete, si trova un dibattito fra esperti di strategia militare, web ed intelligence – i professori Aparo e Di Nunzio con il generale Umberto Rapetto – che discutono di Medio Oriente sotto un titolo originale “Il mito di Polifemo in terra santa”.
Perché, spiegano, oggi Hamas, come l’11 settembre 2001 quelli delle Torri Gemelle, assalta popoli con territori non avendo una terra su cui gli altri possono rivalersi.
Cosicché gli aggrediti rischiano di doversela prendere con “Nessuno”. Come il ciclope.
Hamas ha infatti i capi altrove e la manodopera nelle catacombe sotto Gaza, della quale viene il sospetto che, tutto sommato, poco possa importargliene. Non è la sua terra, i suoi adepti solo fedeli della Shari’ah. Combattenti in ogni parte del mondo per assicurare ai correligionari, tutti, il beneficio della fede e a sé la ricompensa per avergliela portata.
Diceva Gorbaciov che lì:” Non è facile mettere d’accordo” e Yitzak Rabin – il primo ministro israeliano insignito del premio Nobel per la pace insieme al predecessore di Hamas, Yasser Arafat dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – venne assassinato da un connazionale estremista due mesi dopo un’intesa tra palestinesi ed ebrei.
In quel dibattito del 23 ottobre di due anni fà, Rapetto lanciò una provocazione: “e se gli israeliani armassero i palestinesi, quelli veri, quelli che stanno lì, sul territorio?” Suggestivo. Peccato che non c’è più un Arafat.
Sta, infatti, succedendo ancora quello che succede nelle guerre a cui, però, siamo disabituati e ce ne sorprendiamo. Atrocità su cose e persone, bambini compresi, come fu per i figli dei palestinesi di Betlemme trucidati da Erode
I palestinesi c’erano allora, come ci sono oggi e i problemi, nella sostanza, sono gli stessi di sempre. Nel 1985, ai tempi di Arafat, Israele condizionava i colloqui di pace – dopo il bombardamento, vicino Tunisi, del quartier generale dell’OLP – alla preventiva cancellazione dallo statuto dell’Organizzazione della “condanna a morte” dello stato ebraico. La risposta fu che non c’era bisogno di un emendamento formale, perché il riunirsi insieme doveva considerarsi riconoscimento di fatto reciproco.
Come sia continuata la storia è sotto gli occhi del mondo: mentre a Gaza armate senza terra combattono quelli cui una terra è stata data, due stati, Israele ed Iran, con e sui rispettivi territori, si giocano la sopravvivenza a colpi di missili e raffinate operazioni di intelligence all’insegna dell’affermazione da una parte e della negazione, dall’altra, del diritto al possesso dell’arma atomica. L’unica idonea a far tabula rasa di uno o, probabilmente, di ambedue i popoli e, appunto dei rispettivi territori.
Altra cosa, o più interessatamente specificazione di comodo, della guerra santa che si combatteva in nome di Dio. Ora, infatti, si contende, almeno formalmente, in nome del materiale possesso di un umanissimo, quanto disumano, ordigno bellico.
A Gaza, dove si fronteggiano gli israeliani col territorio ed Hamas senza nelle strade, dove da sempre i palestinesi hanno casa, si muore all’ingrosso. In dimensioni da genocidio. Sui cieli di Tel Aviv e su quelli di Teheran lanci mirati e teleguidati per insediare nel territorio altrui i propri vessilli in attesa che i veri padroni del mondo decidano. Ottant’anni dopo Yalta.
Sembrava che Mosè avesse compiuto, qualche millennio fa, la biblica missione di darlo, un territorio, al suo popolo. La Terra promessa dal Dio degli Eserciti là dove, però, abitavano già undici popoli. Quasi quante le dodici tribù d’Israele.