In un Paese dove chi ha le leve del potere si travestiva da tenera e vezzosa Minnie o da impacciato nazista bullizzato, può capitare di tutto e ogni giorno di peggio.
In una Nazione che era culla della cultura e dell’ingegno è prevalsa una razza di analfabeti che – confusa la furbizia con più nobili doti cerebrali – sta mortificando quelli che hanno studiato con sacrificio, si sono impegnati per migliorare, hanno saputo perfezionarsi e mettere la loro affidabilità al servizio della collettività.
Dopo la stagione dell’ “uno vale uno”, arriva quella del “computer vale specialista esperto e responsabile”.
Il Senato ha approvato il DDL 1146-B (qui l’intero fascicolo), quello sull’uso dell’intelligenza artificiale, riservando all’articolo 13 le regole del gioco per chi – come un avvocato – esercita una professione intellettuale.
Il primo comma ha finalità “contenitive” perché sembra fissare argini a possibili abusi e stabilisce che “L’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nelle professioni intellettuali è finalizzato al solo esercizio delle attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’opera”.
Il testo della norma – che potrebbe sembrare lapalissiano – parla di “prevalenza del lavoro intellettuale”, lascia intravedere una tendenza diffusa a servirsi di soluzioni tecnologiche per ovviare a carenze culturali di chi presta la propria opera professionale e soprattutto fa immaginare che siano sempre più numerosi cittadini e aziende il cui avvocato si chiama ChatGPT, Gemini o Copilot.
Dopo aver vissuto la stagione dell’autodiagnosi medica che ha visto Google nel ruolo di pronto soccorso, ambulatorio e farmacia, adesso arrivano i tempi in cui anche l’universo della consulenza e assistenza legale risiede nelle risposte date da una macchina che – pur sofisticata – svolge una attività che non le è propria.
Si potrebbe pensare che anche certi software dovrebbero superare l’esame di abilitazione forense e che forse ci dovrebbe essere un significativo sforzo istituzionale che non si limiti ad un provvedimento di legge privo di forza e magari anche di senso.
Ci sarebbe bisogno di sensibilizzare gli avvocati a fare il loro mestiere senza affidare a strumenti non certificati (e imprevedibili) compiti di delicatissima responsabilità. Sarebbe poi necessario educare la gente a non rimanere inebetita dinanzi ai presunti prodigi dell’intelligenza artificiale e a prepararsi a brutte sorprese conseguenti l’essersi affidata a professionisti non professionali o l’aver preferito una “automedicazione” legale che può “infettare” la propria sorte.
Il secondo comma dell’articolo 13 si limita a far sorridere. “Per assicurare il rapporto fiduciario tra professionista e cliente, le informazioni relative ai sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dal professionista sono comunicate al soggetto destinatario della prestazione intellettuale con linguaggio chiaro, semplice ed esaustivo”.
Fatte salve rarissime eccezioni, provate ad immaginare un avvocato che spiega al cliente l’intelligenza artificiale…
In un mondo dove averne sentito parlare o esser stati un paio d’ore in platea ad un convegno sul tema bastano per sentirsi ferratissimi luminari della materia, l’unico risultato garantito è la comicità del futuro. Lo humor avrà il colore della toga. Nero.












