La guerra non conosce vincitori. Morte e distruzione – se mai ci fosse un tabellone elettronico a segnare il punteggio come nelle competizioni sportive – sarebbero annotate con valori altissimi per entrambe le squadre in gioco.
Eppure, a dispetto di chi guarda sconsolato il conto di vittime e danni subiti o inferti, qualcuno che gioisce in maniera smodata c’è. Eccome se c’è.
A godere dei propri successi commerciali è l’industria bellica, quella che ogni giorno sforna deliziose prelibatezze per sventrare civili inermi, per polverizzare centri abitati o per rendere inabitabili – salvo costose bonifiche successive – territori sterminati.
Mentre tutti guardano con attenzione gli impari duelli Russia-Ucraina e Israele contro Palestina e Medio Oriente, il sobbollire della pentola di Thailandia e Cambogia ha immediatamente fatto riunire i responsabili della produzione e della vendita per approntare una offerta di prodotti facilmente personalizzabili per i nuovi contendenti. Le guerre che finiscono sui giornali sono più facili ad incrementare l’EBIDTA ufficiale (ossia l’indice che descrive l’utile delle imprese) che non è agevole far crescere con il tradizionale consolidato fatturato delle forniture a Sud-Sudan e in tanti altri posti del Centro Africa in cui le centinaia di migliaia di morti non meritano nemmeno un trafiletto nelle “brevi” di un quotidiano a corto di articoli.
L’industria dell’autodistruzione del pianeta è addirittura in affanno perché non era immaginabile che la committenza facesse a gomitate per accaparrarsi qualche “provvidenziale” fornitura, e intanto la spesa militare è destinata a crescere fino a percentuali folli nel bilancio di Paesi che dovrebbero dare priorità a sanità, infrastrutture di utilità sociale e scuola.
In Italia, ad esempio, c’è chi pensa di infilare nel calderone degli investimenti per la Difesa persino l’immarcescibile ponte sullo Stretto di Messina, la cui società concessionaria è in piedi dal 1981 e quindi con solo quarantasei anni di costi e stipendi già spesi.
Chi reputa che tale opera fondamentale sia strategica nell’odierno contesto di conflitti armati ho la vaga sensazione che confonda le armi con i bersagli, ma probabilmente abbiamo fatto studi diversi e vantiamo culture differenti.
Se può servire – in caso di guerra – a distrarre lo schieramento avversario, chi propugna la sua tesi patriottica del collegamento H24 tra Scilla e Cariddi è bene che sappia che l’arguto inserimento della costruzione in argomento rallenta solo di qualche minuto l’avanzata nemica. In un Paese dove i ponti cascano – come Genova e altrove – senza bisogno che qualcuno li bombardi, forse è il caso (oltre a mettere in sicurezza la viabilità esistente) di ragionare sulla possibile durata di una mastodontica costruzione inserita nel budget “Difesa” all’avvio di ostilità belliche… Il ponte verrebbe distrutto in pochi minuti, magari con un missile che la cui creazione vanta qualche subfornitore italiano.
In quel caso i vincitori sarebbero non solo i produttori di armi, ma anche chi dovrebbe ripristinare la connessione autostradale e ferroviaria di cui proprio non si può fare a meno.
Purtroppo – se davvero ci fosse una guerra – avanzerà ben poco e non ci sarà nemmeno l’occasione di buttare via un altro mezzo secolo per una S.p.A. cui affidare progetti, appalti e sogni.
Per immaginare la desolazione che ci attende basta andarsi a vedere lo straordinario lungometraggio animato di Bruno Bozzetto “Allegro non troppo” e lasciarsi guidare dal gatto tra quel che rimane.












