Le cifre fanno spavento. 4 miliardi di utenti attivi in giro per il mondo e un tempo medio di utilizzo giornaliero di 2 ore e 24 minuti danno idea della crescita irrefrenabile che caratterizza i “social” e delle sabbie mobili che questi rappresentano nella civiltà odierna.
Si sprofonda senza avere appigli di sorta e nel frattempo si creano e condividono contenuti ed emozioni, si rendono pubblici interessi ed opinioni, si dissemina l’universo virtuale di foto e video, si confonde la dimensione digitale con la vita reale, si insegue il benessere distruggendo lo star bene.
Un recentissimo studio della Delft University of Technology olandese espone la progressiva crescita delle preoccupazioni per i potenziali effetti negativi dei “social” e segnala una timida tendenza alla disconnessione digitale.
Non è facile “staccare la spina” e ne sanno qualcosa quelli che hanno cercato di troncare il rapporto di dipendenza dal fumo. Se le sigarette rovinano la salute, non sono da meno lo smartphone e il computer ma non è questa la molla che spinge gli utenti a ridimensionare l’utilizzo di certi strumenti elettronici.
A scatenare il desiderio di disconnettersi è la sensazione di perdere tempo online e – a farci caso – ci sono funzionalità tipiche dei social media (si pensi ad un “feed” a scorrimento infinito), possono indurre modelli di utilizzo compulsivo e mettere alla prova l’autocontrollo. Con la parola “feed” si indica erroneamente il il risultato dell’utilizzo di un algoritmo o di una istruzione (che sarebbe il vero feed) che consente a chi ha un telefonino intelligente o un pc di avere ininterrottamente e automaticamente contenuti aggiornati che arrivano da una determinata fonte su un determinato argomento. La rapida sequenza di notizie, ad esempio, porta la persona a rimanere incollato al display che in ogni istante aggiunge qualcosa di cui sembra non si possa fare a meno, in barba a qualsivoglia stimolo naturale di relazionarsi con gli altri o – banalmente – di non rinunciare al sonno…
A invogliare alla disconnessione c’è anche la coscienza della invasività dei social nelle attività di tutti i giorni. Per avere idea delle interferenze nocive basta pensare a quante volte un messaggio WhatsApp oppure una notifica “push” di questa o quell’altra applicazione ci distolgono dalle attvità che stiamo svolgendo.
Se da una parte c’è chi sventola il vessillo del “multitasking” (ossia la possibilità e la capacità di fare più cose contemporaneamente) c’è chi ritiene tale “modalità” innaturale, spesso frutto di indesiderata coercizione che finisce con il generare sensazioni di sovraccarico e il determinare rallentamenti nel lavoro o nelle attività personali.
Chi etichetta i social come una magica opportunità di svago, dimentica che su quelle piattaforme non ci sono soltanto filmati divertenti, ma anche contenuti potenzialmente dannosi in grado di innescare reazioni emotive senza dubbio negative.
Tra gli effetti deleteri di certi contesti virtuali c’è il continuo raffronto tra le immagini idilliache esibite su “social” a forte coinvolgimento visivo. Quel che viene rappresentato (e che non sempre è veritiero) stimola un pericolosissimo confronto sociale che costringe l’utente a guardare verso l’alto e a deprecare le proprie condizioni sicuramente meno ideali. Allo sciupio del proprio tempo si va ad addizionare anche un profondo senso di frustrazione.
Si provi a riflettere. Siamo vissuti perfettamente per decenni senza i social e davvero è così difficile pensare di tralasciarli? A chi dice che ormai sono parte integrante della vita moderna, mi permetto di suggerirne soltanto un uso moderato e soprattutto consapevole. I social non saranno certamente l’Inferno, ma è certo che non sono il Paradiso.