Se nella Russia zarista del XIX e XX secolo il concetto di populismo veniva associato ad una sorta di socialismo rurale che si opponeva al burocratismo e all’industrialismo occidentale, oggi ha inglobato un significato più claustrofobico e in qualche modo kafkiano, diventando sinonimo di degenerazione della democrazia.
Storicamente di populismi ne troviamo tanti. Futili. Da quello nazionale Trumpista, a quello inglese che ha portato alla Brexit, passando per quello identitario che si scaglia contro l’immigrazione, o quello, per l’appunto, legato alla mentalità popolare – molto spesso serrata.
E nel Bel Paese?
In Italia alcuni governi hanno divulgato una visione italocentrica che – perniciosamente – ha contagiato il pensiero, ahinoi, soprattutto dei più giovani. A coadiuvare questo processo di impoverimento mentale della Vox Populi, sono sopraggiunti egoismo e filautia innati che, in maniera più eclatante rispetto alle generazioni precedenti, affliggono la società contemporanea.
Le stragi di Capaci e Via D’Amelio portarono alla necessità di reprimere le azioni mafiose in modo più duro, ragion per cui nacque il cosiddetto “fine pena mai”, più comunemente denominato ergastolo ostativo: il reo condannato per mafia non ottiene alcun beneficio a meno che non dimostri di essere un collaboratore dello Stato – ma attenzione, non è un ricatto.
Uno dei tanti argomenti masticati oggigiorno, il ghigliottinato DL Rave, fra i primi provvedimenti del Governo Meloni, fra gli altri, include proprio delle modifiche all’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, prevedendo la concessione di benefici ai detenuti che, pur non avendo collaborato con la magistratura hanno mantenuto una buona condotta nell’istituto detentivo.
Questo provvedimento, preso in seguito ad una condanna della CEDU per incostituzionalità normativa con gli articoli 3 e 27 della Costituzione – nonché l’art. 3 della Convenzione stessa – ha scatenato l’indignazione della popolazione. La macabra genesi di questo paralogismo popolare è determinata dall’ideale, che tuttora perdura, in base al quale il reo debba marcire in galera o che per determinati reati sia necessario “buttar via la chiave”.
A mio avviso, un concetto che dovrebbe essere insito in ciascun individuo – cittadino di un paese in cui vige lo stato di diritto – è l’inammissibilità nel privare le persone della libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione, fornendo la possibilità di riacquistarla successivamente.
Posto che commettere un reato implica una rottura tra società e reo, il paradosso viene a crearsi laddove lo Stato esige di segregare e ghettizzare il detenuto – isolandolo dalla società stessa – senza mai ricucire tale ferita. Giustificando il tutto con la prevenzione di commissione di ulteriori reati e di salvaguardia del tessuto sociale rimanente.
Non è una questione di buonismo di chi scrive articoli come questo né tantomeno di chi commenta sdraiato dal divano di casa dall’alto del suo solipsismo: si tratta di tutela dei diritti umani, di amore verso il prossimo, di dignità umana, di cardini su cui i nostri Padri Fondatori hanno scritto un Testo che è vincolante per tutti